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Angelo “Nani” Franzosi
Angelo Franzosi (Galleria fotografica archivio.inter.it)
Angelo Franzosi (Galleria fotografica archivio.inter.it) 
02 Marzo 2007
 

Nel quartiere lo chiamavano Nani, vezzeggiativo che in dialetto meneghino affettuosamente si riserva ai bambini e ai ragazzi e che significa “piccolino”, ma già sapeva volare, per quanto fosse minuto, sopra l’erba dei prati che costellavano allora la periferia della metropoli, non ancora estesa come nel presente, a parare ogni pallone, i pali della porta segnati dalle giacchette dei componenti le squadre. Fine anni Venti-inizio anni Trenta: Angelo Franzosi aveva già la vocazione del paragol, vieppiù rafforzata, dopo la conquista del Mondiale 1934, dalla figura di Giampiero Combi, estremo difensore degli azzurri e della Juve del quinquennio d’oro: il padre di tutti i portieri italiani. C’è una foto del Nani in mezzo a due, rispetto a lui, giganti su un assolato campo di periferia, un caseggiato popolare sullo sfondo: pare nella posa un Combi in miniatura.

Respingeva palloni Angelo e si gettava in uscita e tentava la presa, che sarebbe diventata, ferrea e sicura, il suo futuro marchio di fabbrica, sulle distese del Ticinese, quando il calcio si poteva ancora liberamente giocare sui prati, se non nelle strade, di Milano. Le evoluzioni del Nani si svolgevano per lo più al Camp del ratt, in via Lombardini. E lì, o nelle file dell’Ausonia, forse sarebbe rimasto per sempre se... «Un dirigente dell’Inter, passato per caso, mi vide e decise di portarmi a un provino dei neroazzurri, dai quali fui preso. Avevo 14 anni. Ebbi una grande fortuna. Io peraltro già lavoravo come fattorino a 6 lire la settimana. Avevo cominciato dopo la sesta elementare. Eravamo poveri, tutto il quartiere era povero». E l’Ambrosiana-Inter e il Milan, anzi, per le leggi dell’autarchia (anche linguistica), Milano, erano il sogno, oltre che un’autentica passione popolare.

Nani è nel suo ottantaseiesimo anno di vita, la memoria saldissima, il garbo innato e spontaneo. Negli anni Quaranta fu uno dei più forti portieri in circolazione, in Italia e in Europa. Ma torniamo ai ricordi da questo salotto nel Ticinese, quartiere dove il Nani ha voluto continuare ad abitare, in una casa a brevissima distanza da quella sua natale: «Iniziai tutta la trafila nell’Inter. Avevo un’infinità di portieri davanti a me. Io lavoravo e giocavo con i giovani. Poi, adagio adagio, cominciai a scalare le posizioni fino ad arrivare alle Riserve, la cui squadra allora giocava un campionato italiano parallelo a quello dei titolari. Un sabato ero in casa quando un commesso dell’Inter arrivò da me con la valigia e un biglietto del treno: “Parti per Bologna”, mi disse. Era successo che nessuno dei portieri che mi precedevano era disponibile e dovevo giocare io contro lo squadrone felsineo in campionato». All’improvviso il ragazzo che giocava al Camp del ratt si trovava catapultato nell’empireo del football, nello stadio della squadra “che tremare il mondo fa”, contro il team di Ettore Testina d’oro Puricelli, il campione del mondo Amedeo Biavati, quello del passo doppio, Sansone, Fedullo, Arcari IV, Andreolo.

«Arrivai in albergo – racconta – e non c’era nessuno. La squadra era uscita, dopo cena, a fare quattro passi. Mangiai da solo e andai in stanza». Ma il Nani era nervoso, e c’è da capirlo, non riusciva a prendere sonno. Fu l’allenatore Fiorentini a provvedere a calmarlo, portandogli una tazza di camomilla, parlandogli e, una volta che il ragazzo si era addormentato, rimboccandogli le coperte. Inimmaginabile ai nostri tempi! Ve lo vedete Capello che rimbocca le coperte a Cassano o Ronaldo? Un calcio d’altri tempi e con altri rapporti, e il Nani era una carattere d’oro, dolce ed educato, sempre, uno cui era impossibile non voler bene.

28 dicembre 1941, l’Italia è tristemente e dolorosamente in guerra. Pochi gli scampoli d’allegria per la gente. Fra questi il calcio e quel fatidico Bologna-Ambrosiana. Angelo Franzosi è il guardiano delle sorti neroazzurre. «Provai un’enorme emozione al momento di entrare nell’arena bolognese. Avevo vent’anni. Mi calmai subito però. Anche i miei avversari mi confortavano, ed erano tutti assi. Ed io confidavo anche in questo fatto. Vede, un campione colpisce la palla in maniera pulita, senza svirgolarla, e in qualche modo, paradossalmente, può facilitare il lavoro di un portiere molto attento. Parai il primo pallone e tutto filò liscio». Franzosi aveva inaugurato la sua carriera di ultimo baluardo contro le voglie degli attaccanti. Da allora, a parte il campionato del 1942-43 e le stagioni di fermo per il terribile conflitto, la porta dell’Inter fu sua, fino al 1950-51.

Che tipo di portiere era Franzosi?

«Ero molto forte fra i pali, così sostenevano tutti. In questo veramente non ero inferiore ad alcuno, neppure a Sentimenti IV, Moro o Bacigalupo. Mi piaceva bloccare il pallone più che respingerlo di pugno. Mi sono trovato un po’ a disagio con l’avvento del sistema perché si aprivano spazi meno coperti dai difensori». Nel frattempo, con la forza della volontà, una vita seria e integerrima, il duro allenamento, Franzosi era divenuto un atleta perfetto: 175 cm di agilità e riflessi felini.

Angelo, sin da bambino, oltre a quello neroazzurro, lei aveva coltivato il sogno dell’azzurro...

«Fui convocato una dozzina di volte in Nazionale, ma mi nuoceva la logica dei blocchi e allora c’era il Grande Torino, una sinfonia di squadra, con Bacigalupo, gran fisico e ottimo portiere, oppure dell’asse, vale a dire, se giocava come centromediano Parola, allora con lui si schierava in porta Sentimenti IV. Ricordo anche quella volta che lui ebbe un attacco di appendicite la notte e io vegliai con lui cercando di confortarlo e curarlo. Poi si riprese e giocò. Eravamo amici. Pozzo, persona stupenda, severo ma equo e attento ad ogni bisogno dei suoi ragazzi, comunque mi stimava e mi convocava. Io non creavo polemiche, anche se talora mi capitava di soffrire dell’esclusione. Ecco, rimasi molto male quando una volta giocò Moro contro l’Ungheria. Quella volta mi aspettavo proprio di giocare io. Però, devo riconoscere che lui fece delle parate sensazionali. Non so se io le avrei fatte». Uno dei tratti distintivi di Franzosi è sempre stata la modestia. Due infine le presenze effettive in campo del Nani con l’Italia: «Giocai un quarto d’ora a Vienna il 9 novembre 1947 al Wiener Stadion Prater di Vienna contro l’Austria. Entrai sullo 0-5. Carapellese segnò il gol della bandiera all’89’. Io vinsi 1-0», conclude ridendo. Ma un giorno di maggio, il mese delle rose, nella fulgida Firenze il numero 1 dell’Italia era lui, Angelo Nani Franzosi. Fu un 3-1 per l’Italia. Il coronamento di un sogno partito dai remoti tempi del Camp del ratt.

Quali fra le tante partite da lei giocate ama ricordare?

«Mi piace ricordare quella contro una formazione giovanile dell’Ungheria nel 1943, dove evoluiva un certo Ferenc Puskas. Quella volta però vincemmo noi 3-0». In quel periodo Angelo giocò una meravigliosa partita con la sua squadra di avieri contro una corrispondente formazione spagnola. Subì tanti gol, il gruppo italiano era debole, ma lui fu strepitoso. Piangeva, abbattuto, negli spogliatoi quando venne da lui un signore a complimentarsi. Era niente di meno Ricardo Zamora, uno dei più grandi portieri d’ogni tempo. Per modestia Nani non vorrebbe mai raccontare quest’episodio.

I migliori giocatori da lei visti?

«Meazza... alla fine degli allenamenti ci fermavamo per i rigori: mi è capitato di stare anche due ore con lui ad allenarmi e di riuscire a parargliene pochissimi. Aveva una precisione formidabile nel tiro. Era un dribblatore eccezionale e aveva anche una straordinaria elevazione. Valentino Mazzola, un trascinatore, un leader – discuteva lui i premi con la Federazione - e un peperino. Se veniva beccato dal pubblico, era capace anche di rispondere».

Lei ha giocato nell’ultima partita che il Grande Torino disputò in Italia, 0-0 a Milano...

«Fu una partita giocata benissimo. Ci tenevamo a fare bella figura. E poi quando dall’altra parte c’era quel Toro si poteva star certi che ci sarebbe stato bel gioco. Ero molto amico dei giocatori di quella fantastica squadra. Ai funerali dopo la tragedia di Superga ero uno di coloro che portavano sulle spalle le bare».

Forse la partita più strampalata da lei vissuta fu un derby, Inter-Milan 6-5, dopo che i suoi colori erano stati sotto per 1-4...

«Guardi, di là c’erano Gren, Nordhal e Liedholm, il famoso Gre-No-Li, un trio sensazionale. Ho l’impressione che dopo l’1-4 si fossero anche fermati non volendo infierire. Ma chi come noi aveva in squadra un certo Benito Veleno Lorenzi non si poteva di certo arrendere. In quella partita dove forse non toccai il pallone, come l’altro portiere, anche lui incolpevole, seppur criticatissimo, persi 4 kg per la tensione. Curiosissima fu anche una tournée promozionale che, durante un’estate, con l’Inter giocammo per svariate settimane negli Stati Uniti. Le partite di esibizione erano divertentissime e spettacolari e noi non perdemmo mai: soltanto che esse finivano 8-5, 7-6, e così via».

Se sbagliavate, i tifosi e la stampa vi massacravano?

«Quando giocavo all’Arena, finita la partita, me ne andavo a piedi in centro. Se avevo fatto qualche errore, i tifosi che mi riconoscevano mi consolavano: se invece avevo giocato bene, si complimentavano tutti con me. Mi avevano dato un soprannome: il Gatto Nero, per via del colore della divisa. Un altro particolare che la dice lunga: fino a che sono rimasto all’Inter sono andato allo stadio, in occasione delle partite, in bicicletta. Ho cominciato a usare l’automobile solo quando avevo trent’anni a causa del mio trasferimento nel Genoa». Incredibile! Con i grifoni rossoblù – «Ero diventato un milanes al mar»Nani rimase cinque anni, due di B, con un campionato vinto e tre in A. «Andai via dall’Inter senza far polemica. Anche se mi ferì un po’ il commento di un dirigente il quale aveva esclamato: “Ogni tanto la prima ballerina va cambiata”. Dopo il Genoa, il Lecco, quindi l’ultima partita a quarant’anni con il Bovisio Masciago, in Brianza».

Le piace guardare il calcio?

«Seguo con trepidazione la mia Inter. Ma, essendo emotivo, se stenta o soffre, spengo e vado a dormire. Il mattino però la prima cosa che faccio è guardare il televideo e il risultato della Beneamata».

La gradevolissima conversazione è conclusa. Il Nani mi accompagna al portone. Prima del congedo, mi mostra una casa dall’altra parte della via (quella cui avevamo già accennato) e dice: «Vede, lì sono nato e qui sono rimasto». Nel suo infinito universo di ricordi e incontri e casi risalta splendidamente questo saldissimo attaccamento alle radici, come splendido è il suo sessantennale matrimonio con Liliana, anche lei del Quartiere. Il Nani... un grande!

 

Alberto Figliolia


 
 
 
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