Al momento della mia seconda visita allo studio di Bruno Conte - la prima è stata l’occasione per vedere il grosso nucleo di opere qui esposte: uno spaccato su una cinquantina d’anni di attività e di impegno - quasi a voler contrastare l’abbondanza di immagini e di suggestioni dell’incontro precedente, sfogliamo assieme poche sue opere, non presenti in questa rassegna ma chiarificatrici di un atteggiamento e di un fare sempre in bilico tra surrealismo e metafisica, tra naturale ed artificiale, tra urbanesimo ed esistenzialismo, indipendente rispetto al mondo pop, alla superficie delle cose, alla citazione del già fatto, all’effetto dell’oggetto trovato.(1) Le opere di cui parlo sono libri a tutti gli effetti, hanno una copertina e un formato tipico, un autore ed un titolo… e le pagine si rincorrono ordinate, eppure il loro contenuto ha ancora d’esser catalogato.
Sfogliamo uno spesso registro di fine Ottocento mai utilizzato, che emette suoni che le cartacce cui siamo abituati nemmeno conoscono. Al suo interno interventi garbati, a momenti impercettibili. Tratti veloci e precisi color seppia, o nero o blue, si sovrappongono a strutture già esistenti. Punti e linee in ascolto, elementi minimi che emergono dalla materia stessa, tracce di qualcosa di remoto, minato, condizionato ed impreziosito dal tempo andato. Segni che si aggregano e si respingono. Misteriose e segrete scritture dal fondo.
Sfogliamo anche un vecchio raccoglitore, di quelli in cui ad ogni pagina corrisponde un sito delimitato da quattro alette in cui riporre qualcosa - o, come in questo caso, qualcuno - di quelli che si usavano per archiviare corrispondenza o documenti cartacei d’ogni sorta e che Bruno Conte ha, invece, scelto come sede per uno dei suoi zoo privati. Di pagina in pagina, una dozzina in tutto, scostando le alette, un tempo forse bordeaux, oggi d’un marrone appassito, si rendono disponibili ad essere colte per un attimo queste sue creature leggere e sfuggenti, pudiche in modo assoluto ma decise a mettersi in mostra qualora qualcuno vada a sollecitarle.
Dietro il velo della realtà, quel gonfiore che preme, ginocchio che pensa, dal suo mondo ottuso. Oppure, in quest’altro momento sospeso nella penombra, il guizzare di una forza chiusa in se stessa, appannata in un panno.(2)
“quasi pagine” è il titolo scelto da Bruno Conte per questa sua personale alla Galleria Peccolo. E “quasi pagine” sono le opere selezionate, né quadri né oggetti o tanto meno sculture: “quasi pagine”, appunto, ma si potrebbe dire quasi sedie. Non un ennesimo gioco sulla scrittura ma la scelta di un tema analogico alla realtà, tra molti altri, tema emergente dal fondo, affine e diverso.(3) “quasi pagine”… quasi un’antologica, visto il nutrito gruppo di opere selezionate, i cui titoli immediatamente creano un’analogia tra l’esterno (aspetto dell’opera) e l’interno (contenuto delle pagine), realizzate con le tecniche e i materiali più vari, la cui gamma cromatica comprende tutte le tenui e chete tonalità del legno, contrapposte al bianco gesso, tono neutro o mentale, che si pone come in sospeso nell’attesa, senza però rinunciare ad un qualche rosso o a degli azzurri. Ed è, per esempio, proprio un rosso vermiglio a comparire dietro alle due pagine mobili di Hieronymus (1998), omaggio al celebre Il giardino delle delizie. Sono stato attratto dalla “chiusura di quest’opera di Bosh. Mi riferisco alle due facciate esterne degli sportelli che chiudono la rappresentazione. Su queste due ante mobili esterne è rappresentata “La creazione del mondo”: semisfera sul cui taglio piano appaiono quasi cose, tra montuosità e arborescenze, in un clima verde azzurro sotto le nubi che si addensano nell’alto della calotta del cielo.(4) Le pagine che chiudono il trittico di Conte nascondono il delirio acceso di “quasi cose” che emergono mosse da un gonfiore che preme. “Quasi cose” che risiedono nel fondo dell’opera, si manifestano attraverso sporgenze magmatiche, di un rosso ventricolare, sensuale e vibrante. Come vibranti, nonostante il silenzio che le permea, sono le superfici di alcune tavole a rilievo ottenute attraverso l’assemblaggio di materiali vari, in prevalenza frammenti di legno che, uniti al supporto e rivestiti dalla pittura, assumono un aspetto fossile, di natura calcificata, trattenuta al di sotto di un perenne strato di brina (Acanto oltre, 2005); pagine singole (Uno-1, 1964) e in sequenza che si sviluppano orizzontalmente indicando una certa consequenzialità, suggerendo percorrimenti e diverse possibilità di lettura (4-13, 1963; C-4 B, 1964; Paginario-vegetario, 2003; Traduzioni, 2005; Paginario-remoto, 2006).
“quasi pagine” riavvolgibili e sfogliabili. Nelle prime, accadimenti misteriosi appaiono e si concretizzano in una “quasi scrittura” - una criptura, come deducibile da un titolo di un libro ligneo del 1978 – che fugge e che scorre, che continuamente si interroga sull’origine della propria forma e che già al suo interno contiene qualcosa d’altrove (Ignotometro, 1982; Biverso, 1998). Nelle seconde ricorrono spesso elementi aggettanti e acuminati che sono tanto figure da abbecedario quanto immagini di un paesaggio interiore, roccioso o lunare, post atomico e post bellico (Herboligneo, 1975; Svolgipinto, 1978; Trasfondo, 2002). Ci sono poi “quasi pagine” sfogliabili che offrono vie di fuga e possibilità di un ulteriore scavo entro profondità ignote. Ci si troverà di fronte un inventato interno (Internario, 1979), finestre nella finestra (Criptura, 1978) che confermano la sempre maggiore predisposizione alla meraviglia, all’inatteso e all’inattendibile che i libri lignei di Conte impongono a chi ne gode. Piani differenti si sovrappongono e realtà distanti convivono e si contaminano nello stesso momento di spazio, foto di vecchi lavori vanno ad arricchirne uno nuovo (Fotoligneo, 1994), rendendo ancor più palese il muoversi circolare di Conte tra oggettualità e rimando.
“quasi pagine” non perché abbiano qualcosa meno d’una pagina ma semplicemente perché in loro c’è qualcosa di più. Tutte le “quasi pagine” qui esposte, da quelle degli anni Sessanta sino alle più recenti, sono porzioni di un territorio dove un linguaggio altro trova possibilità di svilupparsi liberamente. Dove gli accadimenti di maggior rilievo hanno luogo in un angolo, o nell’ombra, e dove le forme sono eventi e apparizioni.
La pagina è, o può essere, intesa come una porzione di spazio entro il quale muoversi e agire. Libera o abitata, candida o attraversata da mille brividi, ingiallita o stropicciata, fatto resta che una pagina, anche la più piccola, ha due facce e che entrambe “convivono” nello stesso foglio. La pagina ha, dunque, un recto manifesto e un verso segreto; un fronte che nel momento stesso in cui è sfiorato da uno sguardo, inevitabilmente si nega, rimandando ad un retro.
Tutto nel fare di Bruno Conte rimanda a qualcosa che sta dietro. Dietro e dentro all’opera e dietro e dentro (dientro?) all’uomo. Decifrabile solo a tratti, e non certo perché riconoscibile. Tutto rimanda ad un’idea di scrittura assolutamente individuale, che si sviluppa logicamente, nello spazio e nel tempo. Una scrittura che è testo e simultaneamente immagine già contenuta nel supporto da cui affiora come diverso linguaggio, vegetante logico segreto.(5) Un linguaggio da dietro il velo della realtà, sospeso nella penombra, traballante nella sua straordinaria stabilità e maestoso nella sua onomatopeicità.
LA MOSTRA ALLA GALLERIA PECCOLO DI LIVORNO
APERTA DAL 27 GENNAIO AL 15 MARZO
(1) B. Conte, Discorsi sull’arte: razionalità illusoria. Basta niente all’immagine per cadere da un versante all’altro. (È importante raggiungere l’intensità), 2006, inedito
(2) L’ipotesi tangibile, in B. Conte, Buiori, Salon Privé Edizioni, Roma 1994
(3) B. Conte, 2006, op. cit.
(4) B. Conte, Riflessione su Hieronymus, 1998, inedito
(5) B. Conte, 2006, op. cit.