Capita, assistendo a certi film, di intuire che c’è un nesso, un significato sotterraneo, che collega tra loro gli episodi che ci vengono raccontati, ma poi quel nesso ci sfugge, perché non è presentato in una forma esplicita, come abitualmente avviene nei film, almeno nei più popolari.
Una sensazione simile può accompagnare gran parte della visione dell’ultimo film di Robert Zemeckis, Here, tratto da un romanzo a fumetti di Richard McGuire.
Il luogo a cui sembra alludere il titolo, è la stanza di un appartamento, nella quale il racconto si svolge quasi per intero. Ma quella stanza via via si riempie di arredamenti diversi, a seconda dei personaggi che la abitano e delle epoche in cui sono collocati. E se a volte il racconto sembra trasferirsi in un esterno, è soltanto perché risale ai tempi in cui la casa, cui quella stanza appartiene, non era ancora stata costruita, e il suo spazio era ancora un ambiente naturale, perfino preistorico.
Va anche detto che il racconto non segue un percorso cronologico, ma interseca liberamente i suoi episodi, senza che tuttavia ci dia l’impressione di procedere a casaccio.
C’è un momento in cui ci può sembrare di cogliere la sua logica segreta. Quella stanza è sempre vista da una stessa angolazione, di lato e a una tale distanza per cui con un colpo d’occhio la si può abbracciare per intero: grosso modo come se ci trovassimo in un teatro, seduti in una poltrona delle prime file, davanti a un palcoscenico.
In tale inquadratura risalta un particolare architettonico: le finestre del balcone coperto in fondo al salotto, dalle quali si può osservare, in lontananza, un incantevole paesaggio, innevato d’inverno o soleggiato in primavera. M a ciò che più importa è che l’intelaiatura di quelle finestre dà l’impressione di una gabbia che separa da quel paesaggio i personaggi della storia.
Ecco allora che nelle varie descrizioni di vite matrimoniali e familiari che si succedono sullo schermo - e che hanno spesso un tono indulgente, umoristico, magari con punte di umorismo nero - spicca il tema della costrizione. Ci sono prima di tutto le costrizioni economiche, quelle per cui un padre di famiglia deve rinunciare alle proprie aspirazioni, ai sogni giovanili, per trovarsi un mestiere con cui provvedere alla moglie e ai figli; o per cui una giovane coppia di sposi non può comprarsi una casa nuova tutta per sé, e deve adattarsi a convivere per anni con i suoceri. E poi le costrizioni culturali, per cui una donna, una volta sposata, doveva abbandonare o limitare le proprie ambizioni professionali. E altre costrizioni sociali, quelle per esempio dovute al razzismo: uno dei brani più impressionanti del film riferisce la lunga ammonizione di un padre nero al figlio, che adesso guida un’automobile, in cui gli prescrive i singoli gesti che deve compiere se viene fermato a un posto di blocco, per evitare che un poliziotto gli spari.
A fronte di tali episodi, le immagini di un tempo degli amori di una coppia di Indiani all’aria aperta esprimono forse l’aspirazione a una vita più naturale, libera dai tanti disagi, o dai mali, della civilizzazione americana. Se tuttavia nel film non prevale la rabbia della contestazione è perché, nonostante tutto, l’amore familiare, in particolare tra moglie e marito, attutisce alla fine ogni conflitto. E un cambio conclusivo dell’angolazione dell’inquadratura mostra che dopo tutto le sbarre di quella prigione domestica sono soltanto la struttura di un delizioso bovindo, ora visto dall’esterno. Se il sentimentalismo è il suo limite, il film resta comunque notevole per la qualità impeccabile della messa in scena, cui contribuiscono in modo determinante la scenografia e i costumi, e per la precisione dell’intepretazione, coadiuvata dall’intelligenza artificiale che ringiovanisce gli attori; e per il modo fine, discreto, con cui il significato del racconto (o almeno uno dei significati possibili) è suggerito allo spettatore.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 18 gennaio 2025
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