“Ho trovato la mia risposta proprio alla fine del Cammino, nella Cattedrale di Santiago, dopo avere fatto visita alla tomba di San Giacomo. L’ho trovata di fronte alla meravigliosa bellezza del bassorilievo medioevale del Portico della Gloria”
Ho coltivato l’idea di fare il Cammino di Santiago per un certo periodo di tempo, senza sapere che oggi è un percorso frequentato da tanta gente e assistito.
In quegli anni spesso la vita assieme agli altri mi era di peso, e sentivo periodicamente il bisogno di staccare da tutto e andarmene per conto mio a camminare per giorni in posti isolati, con lo zaino sulle spalle e la sola compagnia della mia piccola fisarmonica. Il mio luogo preferito erano i boschi del Casentino, con i loro eremi e monasteri, che percorrevo da La Verna a Camaldoli, in sentieri sempre sui mille metri d’altezza, spingendomi oltre il Monte Falterona fino alla valle dell’Acqua Cheta, che avevo conosciuto grazie alla Comunità degli Elfi.
Questo bisogno di stare da solo e camminare per conto mio aumentava man mano che passavano gli anni, tanto che ad un certo punto consideravo i periodi di lavoro insieme agli altri come delle pause rispetto al mio vero percorso, che identificavo nei tempi che concedevo a me stesso per andarmene a camminare per le montagne.
Sapevo però che il bisogno economico incide con forza nelle scelte della vita, e volevo trovare questa mia strada tenendomi ancora relativamente autonomo da questo bisogno. Questo mi era possibile anche perché avevo come base a Roma un posto letto a casa di amici per il quale pagavo un affitto minimo e solo quando l’occupavo. Poi bisogna considerare che da un po’ di tempo non ero sentimentalmente legato a nessuna donna. Questa dimensione solitaria e libera mi piaceva, e mi consentiva di prendermi il mio tempo, dopo tutte le esperienze che avevo vissuto, per cercare di capire chi io fossi.
Ormai avevo una sorta di equipaggiamento standard il cui peso era ridotto al minimo indispensabile e sempre di più lo percepivo come la mia vera casa. Usavo la kefia per ripararmi dal caldo e dal freddo, e per asciugarmi quando mi lavavo, e avevo studiato un modo di farla asciugare agganciandola allo zaino, in modo da poterla facilmente lavare e tenere sempre pulita. Il mio letto era formato da una pelle di capra pelosa, a cui ero molto affezionato, e che era il mio materasso, e dal mio sacco a pelo, dentro cui tenevo un lenzuolo che lavavo periodicamente nelle lavanderie a gettoni, così che in qualunque posto fossi mi potevo mettere a dormire e sentirmi pienamente a casa. Perfino quando lavoravo con gli altri in festival dove avevamo l’albergo pagato, alcune volte preferivo andarmene a dormire in un parco pubblico con il mio sacco a pelo e la mia pelle di capra e questa scelta mi pagava in libertà ed emozioni: ricordo una volta in Svizzera, a Neuchatel, che proprio per questo ebbi la possibilità di assistere ad un alba meravigliosa, in cui il lago e la nebbiolina che lo sovrastava si colorò di un rosa delicatissimo mentre un numero imprecisato di cigni volavano lentamente e pesantemente a pelo d’acqua, quasi come al rallentatore… una visione celestiale, sembrava di essere non in Svizzera ma in India!
Quando però nel Duemila, con il mio zaino e la mia piccola fisarmonica, mi sono avviato sul Cammino di Santiago facendo spettacolo in tutte le città incontrate, non si trattava del solito periodo di cammino solitario.
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Non si trattava tanto di andare a camminare per le montagne, quanto di staccarmi dai miei abituali compagni di lavoro per guardarmi dentro e cercare di comprendere cosa veramente io volessi fare. Cercavo anche di capire chi fossi.
Alle volte m’imponevo di dormire all’aperto nei boschi per mettermi alla prova.
Un giorno mentre camminavo per i boschi del Casentino, a circa milleduecento metri d’altezza, con la mia fisarmonica a tracolla, per passare la notte cercavo un piccolo rifugio che era segnato sulla mappa, ma vidi solo una baracchetta di lamiera piccolissima che non ci si poteva nemmeno coricare, piena di barattoli usati; scartai quella possibilità e continuai pensando di proseguire fino al paese successivo, anche se stava per tramontare. Prima del previsto, però, improvvisamente si fece buio: stava per arrivare un temporale. Capii che l’unico modo per scamparla era di cercare di ritrovare quel piccolo rifugio che avevo disprezzato. Correndo senza respiro riuscii a trovarlo e ad infilarmici dentro appena in tempo, che si scatenò un fortunale spaventoso, con scariche impressionanti di fulmini: lì dentro pregai di non essere colpito da uno di quei fulmini e amai quel rifugio come il bene più prezioso. Mi sentii molto piccolo.
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In questi miei percorsi mi ritrovai una sera d’autunno a Lourdes, in visita al santuario, una visita inizialmente diffidente che poi si colmò di una grande commozione vedendo e percependo la fede di tutta quella gente in preghiera, di cui una buona parte era costituita da persone provate da grandi dolori fisici e spirituali. Mentre assistevo alla cerimonia del Padre Nostro che ogni sera viene recitato lì in decine di lingue differenti da centinaia di persone, come in un rinnovato miracolo della Pentecoste, mi arrivò la notizia del terremoto in Umbria.
Sentii il bisogno di tornare subito in Italia a dare una mano.
Arrivai ad Assisi una settimana dopo il terremoto, e assistetti alla messa domenicale a Santa Maria degli Angeli, che si svolse nella piazza, perché la chiesa era danneggiata. Ad un certo momento ci fu una forte scossa e la statua di bronzo in cima alla chiesa ondeggiò paurosamente dentro il perno che la sosteneva, suonando come una campana e seminando il panico tra le persone.
Scosso da questa visione, sentii il bisogno di telefonare ai miei genitori, che non sentivo da diverso tempo, e seppi che proprio quel giorno era morta d’infarto la mia zia più anziana, sorella di mio padre, e quasi una madre per lui.
Andai al paese di mio padre, in Sannio, per i funerali, e dopo tornai per un po’ a casa dei miei genitori e capii che, prima di fare qualsiasi scelta, dovevo riconciliarmi profondamente con loro, con mio padre, con mia madre.
In seguito mi capitò di avere un problema fisico abbastanza serio: dovetti farmi operare in un ospedale e poi affrontare un lungo periodo di convalescenza in cui non mi era possibile camminare, e questo voleva dire anche non poter lavorare. In questa particolare situazione in cui mi trovavo a non essere indipendente né da un punto di vista fisico e logistico né economico, mi resi conto che l’unica soluzione era quella di fare questa convalescenza a casa dei miei genitori, e fu per me una sorta di penitenza.
Improvvisamente mi sembrò di comprendere veramente cosa volesse dire scegliere di vivere con l’arte di strada.
Fu così che, dopo essermi ripreso dai postumi dell’operazione, nell’ottobre del Duemila ripartii per la Francia, e, passando di nuovo per Lourdes, mi misi a fare in pellegrinaggio gli oltre ottocento chilometri del Cammino di Santiago.
Per arrivare a Santiago de Compostela dai Pirenei impiegai, come tutti i pellegrini a piedi, oltre quaranta giorni.
A guidarmi e sostenermi, era il fatto di suonare, sempre e comunque, anche dopo una giornata di cammino, nelle piazze per guadagnare da vivere ma anche dentro gli ostelli, per rallegrare gli altri pellegrini: il fatto di suonare era il mio centro, ciò che avevo da offrire. Una pellegrina canadese mi chiese come facevo a portare, oltre allo zaino, anche il peso della fisarmonica; le risposi che non ero io a portare la fisarmonica ma la fisarmonica a portare me. La pellegrina scrisse poi questa mia frase in un reportage giornalistico che fece in Canada, e me lo spedì. Sembrava una frase ad effetto ma era vero.
Sul Cammino di Santiago s’incontrano persone di ogni nazionalità ed età, tanti brasiliani, francesi, spagnoli, irlandesi, e ognuno di loro fa il Cammino per un motivo differente: chi lo fa per un voto, chi per prendersi una vacanza culturale, chi per riprendersi da un esaurimento nervoso, chi per celebrare l’inizio della pensione, chi per preghiera e chi per sport, chi per motivazioni esoteriche di stampo new age, chi per fare foto, per divertirsi, per dimagrire, c’è perfino – e se ne incontrano - chi lo fa per scappare dalle persecuzioni politiche che opprimono alcuni ambienti nei Paesi Baschi, e c’è chi rimane imprigionato nel Cammino e, protetto dalla dimensione di solidarietà e amicizia esistente tra i pellegrini, non ritorna più a casa e diventa vecchio rimanendo costantemente pellegrino. Io ho fatto il Cammino per capire quale fosse il sogno che dovevo servire nella mia vita.
Ho trovato la mia risposta proprio alla fine del Cammino, nella Cattedrale di Santiago, dopo avere fatto visita alla tomba di San Giacomo. L’ho trovata di fronte alla meravigliosa bellezza del bassorilievo medioevale del Portico della Gloria, che per una questione architettonica nessuna foto è in grado di mostrare completamente in quanto non è possibile allontanarsi abbastanza da avere una visione complessiva, ma che quando lo guardi di persona ne sei circondato e ti percepisci come se tu stesso fossi dentro quella che è una vera e propria visione della gloria di Cristo narrata dall’opera ispirata dello scultore.
Al centro del portico è raffigurato un grande Gesù che con le mani aperte emana lo Spirito, e intorno a lui sono angeli, profeti, santi che, pervasi da questo Spirito, suonano tutti uno strumento musicale. Il fatto è che suonano come in uno stato di grazia, nella beatitudine, senza sforzo, come avvolti dalla musica, alcuni con gli occhi chiusi, con il capo all’indietro: è come se la musica non dipendesse dai loro strumenti ma semplicemente li attraversasse, emanata dalle mani del Cristo, mentre tutto quel che loro fanno è lasciar fluire la musica abbandonando ad essa la propria volontà. Un’immagine che, per quanto mistica, mi apparve anche molto reale, ricordandomi alcuni momenti vissuti in cui, mentre si suonava insieme, magari davanti ad un fuoco, la musica inizia a fluire, naturalmente, come condotta dal passaggio degli angeli.
Di fronte a quell’opera d’arte, ho compreso quale fosse il valore del talento che mi era stato donato, e ho capito che nella vita dovevo fare ciò che fino ad allora avevo coltivato con più dedizione e gioia, ossia il musicista e il cantastorie, cercando di contattare sempre dentro di me l’ispirazione più autentica e perseguendo questo sogno indipendentemente dalle persone con cui avrei potuto condividerlo. Quello era il mio sogno, potevo anche occasionalmente condividerlo con altri, ma la responsabilità di seguirlo era solo mia.
La parte cattolica del Cammino termina quando si fa visita alla tomba del santo, ma esiste un Cammino più antico, di origine druidica e precristiana, che termina nel luogo dove gli antichi pensavano che finisse il mondo, il punto più occidentale d’Europa (almeno quello che si riteneva tale) non a caso chiamato Finis Terrae, in latino “fine della Terra”, ed ora storpiato dai Galiziani in Fisterre. La tradizione vuole che, dopo aver lasciato la propria casa ed ogni proprio bene, e aver seguito per settimane il cosiddetto Cammino delle Stelle, ossia la Via Lattea, giunto in quel lembo estremo di Terra, di fronte all’immensità dell’oceano, il pellegrino può esprimere un desiderio che, se espresso con fede, verrà sicuramente esaudito.
Io mi ero attardato a suonare diversi giorni a Santiago, incantato da quella città che sembra un’astronave sospesa nel tempo, e appagato dalla visione del Portico della Gloria che tornavo ogni giorno a guardare; avendo il biglietto d’aereo già fatto per due giorni dopo, non avevo più il tempo di percorrere a piedi quell’ultima ottantina di chilometri che separano Santiago di Compostela da Finisterre.
A cena in una bettola, con alcuni amici pellegrini, scoprimmo di avere lo stesso problema, e si disse di andare comunque a Finisterre l’indomani in autobus: erano una simpaticissima coppia svedese di una certa età e una ragazza di Lecco di nome Maria, l’unica persona italiana incontrata durante il Cammino. Fissammo un appuntamento per il mattino seguente sull’autobus delle otto.
Il giorno dopo, però, l’ultimo per me a Santiago, pioveva forte, era buio, faceva freddo, non mi andava proprio di uscire e rimasi a dormire nel caldo della mia cuccetta all’ostello dei pellegrini, dando buca ai miei amici. Poi però ebbi un sussulto, e decisi di prendere l’autobus seguente; tutto il tempo del viaggio suonai per allietare gli altri passeggeri, che gradivano molto la musica, e non mi resi conto che il cielo si stava schiarendo. Quando scesi, con mio grande stupore, trovai di fronte a me lo spettacolo di un cielo completamente terso: era venuta fuori una giornata piena di sole che illuminava quel villaggio di pescatori e, oltre ad esso, l’oceano. Camminai fino al promontorio del faro, considerato per tradizione il punto estremo ad occidente del continente europeo, dove termina il Cammino e dove c’è un buffo monumento al pellegrino raffigurante uno scarpone di bronzo.
Lì incontrai i due amici svedesi, ai quali avevo parzialmente dato buca. Eravamo veramente felici, e ci godevamo la visione e il profumo dell’oceano da quello strapiombo sul mare, mentre si sentiva solo il rumore del vento e in lontananza il fragore delle onde: tutti i chilometri percorsi, le esperienze, le fatiche, gli incontri, le speranze, riecheggiava come un ricordo, ma era tutto ormai alle spalle, e da lì tutto ricominciava da zero. Distrattamente ruppi il silenzio dicendo agli amici che sarebbe stato il massimo se in quel momento avessimo avuto una panada e del vino tinto per festeggiare, e lì per lì non mi resi conto di avere espresso un desiderio in piena regola, ma in quell’istante preciso sentimmo delle grida provenire dalla strada: era Maria che sbracciando ci salutava, aveva preso l’autobus seguente al mio, e portava con sé… una panada ed una bottiglia di vino tinto!
* Daniele Mutino, musicista, compositore e cantastorie.
(Tratto da Storia di una cantastorie ‒ Daniele Mutino, una fisarmonica itinerante. Racconto intervista a cura di Maria Lanciotti, Edizioni Controluce 2014, seconda edizione riveduta e aggiornata 2018)