C’è un cinema che vorrebbe mostrarci la vita così com’è, anche in tutte le sue negatività; e un cinema che preferisce raccontare la vita come si vorrebbe che fosse, come piace sognarla.
L’ultimo film di Almodóvar, La stanza accanto, mi sembra una singolare commistione fra questi due tipi di cinema.
Le sue immagini sempre molto colorate, le sue visioni di una Manhattan più bella del vero e che sembrano filtrate dal ricordo di altri film, le sue eroine quasi statuarie, che riescono a essere moralmente forti e positive anche a fronte delle circostanze più tragiche, sono elementi che sembrerebbero appartenere a un cinema che tende a idealizzare la realtà.
Eppure il tema che affronta nel suo film è di quelli che dovrebbero essere esclusi da un cinema di evasione: la malattia mortale, un tumore che resiste ai tentativi di cura più sperimentali.
È vero che c’è un cinema melodrammatico che utilizza la malattia come un termine antagonistico all’amore, che cioè ostacola l’amore, lo conclude prematuramente. Ma la malattia serve allora in effetti a idealizzare l’amore, a preservarlo dall’usura della vita quotidiana, a conservarlo come un ricordo soltanto dolce, incontaminato, per cui lo spettatore può facilmente commuoversi.
Ma nel film di Almodóvar tutto questo non avviene. Nella vita della donna destinata a morire, l’amore sembra già appartenere al passato. Ciò che le resta è una maternità problematica e l’amicizia con un’altra donna. Quell’amicizia non è durata tutta la vita. Le due donne si erano perse a lungo di vista e si sono ritrovate in ospedale in occasione di quella malattia. Si tratta dunque di un rapporto precario, inadatto a costruire un melodramma. La morte non serve qui insomma a enfatizzare il sentimento che unisce le due donne.
Nel film il vero oggetto dell’idealizzazione, piuttosto che l’amore o l’amicizia, sarà allora la morte stessa. Almodóvar avrebbe insomma inteso raccontare quale sarebbe il modo ideale per morire dopo aver ricevuto la diagnosi di una malattia mortale che si dimostra incurabile.
Di qui allora la particolare scelta del luogo in cui morire: una splendida casa immersa in un bosco; le occupazioni scelte prima della morte, come rivedere in compagnia i film più amati della storia del cinema, conversare di arte, acquistare qualche buon libro.
Ma soprattutto: sottrarsi a cure che si sono dimostrate inutili e, si dice, simili a torture, e scegliere il suicidio attraverso una pillola che consente una morte indolore, quando e dove si preferisce.
È allora che la descrizione di questa descrizione di una morte idealizzata rivela un aspetto polemico ed evidentemente politico.
Quella pillola è stata acquistata clandestinamente su Internet, perché è illegale; la complicità dell’amica, che in effetti non deve somministrargliela, ma soltanto tenerle compagnia, dormire nella stanza accanto alla sua, può essere criminalizzata; un poliziotto, fervente cattolico, cercherà di inquisirla, di inchiodarla alla sua colpa presunta. Così ciò che nel racconto era apparso simile a un sogno, alla fine è rivendicato come un diritto individuale.
La stanza accanto è un film politicamente impegnato, senza che l’autore rinunci mai, in nome dell’impegno, al suo stile del tutto originale, alla sua personale idea di cinema. Julianne Moore e Tilda Swinton sono le due magnifiche interpreti principali del film. Senz’altro da vedere.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 14 dicembre 2024
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