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Gianfranco Cercone. “Giurato numero 2” di Clint Eastwood
01 Dicembre 2024
 

Alcuni film possono suscitare la nostra simpatia perché illustrano con una chiarezza quasi didattica alcuni principi in cui crediamo e che ci interessa che siano divulgati. Uno di questi principi, almeno per quanto mi riguarda, è che nel giudizio sugli altri non dovremmo mai lasciarci trascinare dai pregiudizi consci o inconsci che nutriamo, specie poi se quel giudizio è una condanna. Una debolezza tanto più grave se si verifica nel luogo istitutizionale di quel giudizio, nell’aula di un tribunale.

L’ultimo film di Clint Eastwood - che, a quanto pare, sarà proprio l’ultimo della sua ormai lunga filmografia di regista, che riprende lo spunto di un classico del cinema americano, La parola ai giurati di Sydney Lumet - si svolge in buona parte nella stanza di un tribunale in cui si riunisce la giuria popolare al termine di un processo. L’imputato è un uomo accusato di aver ucciso la fidanzata dopo un litigio. L’uomo ha fama di delinquente, alcuni maltrattamenti nei confronti della ragazza sono certamente avvenuti, il suo aspetto torvo non depone a suo favore, la violenza contro le donne è oggi percepita, come è giusto, particolarmente odiosa.

Questo complesso di fattori indurrebbe la giuria, almeno la sua stragrande maggioranza, a concludere in fretta la discussione, a pronunciarsi senz’altro per un verdetto di colpevolezza, malgrado le prove contro l’imputato siano tutt’altro che decisive.

Sarà uno dei giurati - appunto, il “giurato numero 2” del titolo - un giovane padre, di evidente bellezza, che sembra quasi incarnare l’ideale della giustizia, esprimere già con il suo aspetto fisico la purezza del giudizio, che avanzerà dei dubbi su quella generale e sbrigativa convinzione, evidenziando allo stesso tempo i pregiudizi, i partiti presi di quei giurati meno disposti a cambiare opinione, o i presupposti sbagliati della loro convinzione: quella per esempio per cui dovrebbe essere l’imputato a provare la propria innocenza, e non l’accusa a provare la sua colpevolezza.

Ma a questa parabola didattica sul corretto giudizio e sul giusto processo, si intreccia, per tutta la durata del racconto, un secondo filo narrativo, su un tema questa volta introspettivo, ma condotto con la stessa chiarezza del primo.

Quel giurato dall’aspetto quasi angelico, nasconde in sé un demone. Sospetta infatti, ma è un sospetto che via via si avvalora, di essere stato lui stesso, involontariamente, l’autore di quell’omicidio. Si accresce allora in lui la convinzione dell’innocenza di quell’imputato e il suo impegno per scagionarlo. Ma è in agguato la tentazione opposta, favorire la condanna dell’altro per salvare se stesso.

Ma potrà vivere tranquillo, in pace con se stesso, sapendo che un innocente sconta una terribile condanna al suo posto?

Si tratta di una domanda del tutto retorica, perché il film di Clint Eastwood è di quelli che, piuttosto che suscitare dubbi, esprimono solide convinzioni, ma di quelle maturate nel tempo, frutto di una personale saggezza.

I significati del film sono netti, non si prestano a difficoltà di interpretazione. I personaggi sono scolpiti in modo tale da essere immediatamente riconoscibili nei loro caratteri fondamentali e, se ammettono chiaroscuri, sono anch’essi del tutto leggibili (a parte il protagonista, quella pubblica accusa per esempio, rivestita da una donna che sembra indurita dal cinismo, ma che via via visibilmente, in cuor suo, si fa prendere dai dubbi sulla colpevolezza dell’imputato).

Malgrado una certa schematicità, il racconto è coinvolgente, riuscendo ad essere allo stesso tempo nobilmente edificante.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 23 novembre 2024
»»
QUI la scheda audio)


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