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Gianfranco Cercone. “Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini
15 Ottobre 2024
 

Si sa che una descrizione di valore artistico richiede un’osservazione disinteressata dell’oggetto da descrivere. Così se quell’oggetto fosse una persona che nell’autore suscita rancore, magari l’intento di vendicarsi con gli strumenti della propria arte, difficilmente la descrizione riuscirebbe ad essere equilibrata ed obiettiva. Ma anche al contrario: se quella persona è per l’autore l’oggetto di una passione amorosa, la descrizione potrà risentire di un’idealizzazione incontrollata.

So che questo principio, così formulato, può prestarsi a tante obiezioni. Ma è una premessa per dire quanto fosse difficile il compito che si era preposta la regista Francesca Comencini: realizzare un film di finzione su suo padre, un bravissimo e rinomato regista, Luigi Comencini; e sul rapporto di quel padre con lei stessa, quando era bambina e poi ragazza.

Nel film la figura del padre è effettivamente investita di un’intensa idealizzazione. Ci appare come un padre tutto, o quasi, amorevole, forte, paziente e saggio. Ma se tanta positività non risulta mai stucchevole, non ci dà l’impressione di un difetto artistico, è perchè il suo ritratto dichiaratamente non vuole essere obiettivo. In un primo tempo la sua figura è come vista dallo sguardo della bambina (e una bambina inevitabilmente idealizza suo padre, tanto più che quel padre appartiene al mondo mitico del cinema e delle favole. In quel periodo Luigi Comencini realizzava per la televisione una celebre trasposizione del "Pinocchio" di Collodi.)

In un secondo tempo poi, quando la figlia è ormai adulta, il padre sembra visto attraverso il filtro del ricordo e del rimpianto. E il rimpianto selezione tra i ricordi i più preziosi, quelli che costituiscono l’eredità spirituale di quel padre, i suoi insegnamenti, o le sue prove di affetto, tanto più care quanto magari in apparenza burbere o discrete.

Va anche detto che l’idealizzazione è corretta da un leggero umorismo, sia pure intriso di tenerezza: quando il padre si ostina in imprese che contrastano con l’indebolimento del corpo, o quando sul set si profonde in troppi consigli a sua figlia, ormai divenuta regista professionista.

Ma è la figura della bambina e della ragazza quella che è vista con più obiettività, con la varietà di sfumature di un ritratto realistico, per quanto riguarda la ragazza rendendo persuasivamente il suo difficile percorso evolutivo: un risultato tanto più notevole trattandosi di un personaggio autobiografico, e soltanto la distanza del tempo ha consentito, credo, il necessario distacco.

Anche in questo caso il personaggio è visto con un certo umorismo, ma senza indulgenza. Gli errori giovanili (il disorientamento, la tossicodipendenza da eroina, la simpatia per l’estremismo più violento: in un’aula scolastica la ragazza si ritrova ad applaudire con i suoi compagni quando giunge la notizia del rapimento di Aldo Moro), quegli errori sono descritti soltanto come tali, senza giustificazioni, e appaiono tanto più gravi perché infliggono quasi sadicamente un dolore a quel padre. Il loro unico riscatto è nell’esito conclusivo, nella scoperta della propria vocazione artistica.

In un racconto che si regge interamente sui due personaggi principali, la resa degli attori era fondamentale per la riuscita del film. Fabrizio Gifuni, nel ruolo del padre, e Romana Maggiora Vergano nel ruolo della figlia ragazza, incidono due personaggi memorabili, che che ci diventano familiari, tanto via via ci sembra di fare intimamente conoscenza con loro.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 5 ottobre 2024
»»
QUI la scheda audio)


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