La chiesa di san Bachisio sotto l’abitato di Bolotana, un tempo luogo di pellegrinaggi e di strane leggende contrastanti col loro spirito, è dedicata a un santo, arrivato nei primi secoli dall’oriente, che in Sardegna cambiò nome: quel “gloriosissimo martire san Bacco, che qui chiamano Bakis, compagno nel martirio di san Sergio”, come si legge in una storia scritta nel 1639 da Francesco de Vico, un alto funzionario sardo del governo spagnolo. All’interno, fin dal portone si rimane colpiti da un retablo in legno dorato, in fondo nel presbiterio, in cui campeggia la sua statua. Si divide in tre piani sovrapposti che si vanno restringendo, con un riquadro in alto sormontato da un timpano. La fusione di statue colonne e volute e la policromia dei legni realizzano una struttura barocca, in evidente contrasto, per chi percorre la navata, con le cappelle spoglie delle pareti laterali, e in generale con il senso di austerità dell’insieme. Osservato da vicino, l’altare non fa corpo unico col retablo, ma è ridotto a una lastra di marmo, separata e priva di tabernacolo.
I tre piani in legno sono divisi tra i santi in basso, legati alla tradizione popolare, e le figure più importanti della chiesa in alto. Al centro in basso c’è san Bachisio, la sua statua e la nicchia sono visibilmente più grandi rispetto alle laterali, e il piedistallo è più alto. Le figure del culto ufficiale sembrano quasi fare da contorno. Nel riquadro superiore la posizione e il gesto del braccio destro sembrano voler imitare nei limiti del possibile il Cristo della Sistina. Anche la Madonna sotto, al centro nel piano di mezzo, sente l’influenza del Giudizio: è visibilmente intimidita dal gesto del Figlio, la sua figura è rimpicciolita rispetto ai due apostoli vicini e alla sua stessa nicchia. La centralità di san Bachisio si estende dal retablo all’intera chiesa. Alla sua sinistra c’è Sergio, il compagno di martirio; rimaneva libera un’altra nicchia: un vero problema, perché un santo isolato, assumendo importanza autonoma, non sarebbe stato in sintonia coi primi due. Nella folla anonima dei primi tempi si poteva trovare una soluzione sorprendente. C’erano due santi, Marcello e Apuleio, secondo la tradizione padrone e servo, che morirono a Ischia durante l’impero di Tiberio, nei primi dieci anni dopo la morte di Gesù. Essi aprono in certo modo una lunga serie di persecuzioni, che si chiude con gli altri due, caduti nei primi anni del Trecento, appena prima del riconoscimento del cristianesimo. La loro condizione sociale di padrone e servo indusse gli autori del retablo ad applicare i canoni del loro tempo, che li metteva su piani diversi. Neppure diventando santo, Apuleio cessava di essere servo, le differenze sociali essendo immutabili nella società contadina. Perciò viene messo nella nicchia di destra dietro Sergio, dove si vede appena; sembra che abbia trovato un nuovo padrone, più autorevole del primo.
I due santi venuti dall’Oriente erano ufficiali di alto rango dell’esercito romano in Siria; a quanto pare, prestavano servizio nel palazzo del tetrarca. Il loro nome non fu legato a opere o virtù particolari, come avvenne per il loro contemporaneo san Giorgio. Eppure, la loro vicenda emerse dalla storia dei martiri, e dalla Siria la loro fama si diffuse nel mondo mediterraneo. Molte chiese sorgevano dappertutto; straordinario fra tutti un santuario di Costantinopoli, fatto costruire da Giustiniano nel 500, agli inizi del suo impero, che gareggiava in magnificenza coi templi di Pietro e Paolo.
Forse grazie alla loro carriera militare, cadendo negli ultimi giorni, finirono per rappresentare l’epilogo del lungo conflitto tra l’Impero e la nuova religione. Essi avevano anticipato la pacificazione, e realizzato ciò che i cristiani illuminati avevano sostenuto fin dal secondo secolo, che un buon cristiano era fedele e devoto all’autorità civile. Per secoli durante l’alto medioevo furono effigiati da ufficiali, nei quadri e nelle immagini che portavano i fedeli. Anche attraverso di loro il cristianesimo legittimava l’impero, che era stato in antitesi rispetto ai suoi valori. In relazione con la carriera militare sembra anche il rituale prima dell’esecuzione, quando furono travestiti da donne e portati per le strade in mezzo allo scherno e al dileggio della gente. L’episodio del travestimento concentrò l’attenzione sulla loro vicenda, e rimase nel ricordo più di altri particolari più crudeli, i chiodi ai piedi di Sergio e la flagellazione di Bacco. Il travestimento implicava un’accusa di sessuofobia, destinata a suscitare un’eco in una religione basata sulla rinuncia e il sacrificio. Dell’episodio si parla anche nell’inno, che viene cantato ogni anno in chiesa in occasione della festa.
Il culto ufficiale fu comune per i due martiri, ma vari indizi indicano che essi non ebbero uguale importanza. L’antica chiesa di Costantinopoli del sesto secolo era dedicata a entrambi, ma il suo primo nome era Sergio; la stessa precedenza era stabilita nel calendario, che dedicava al loro ricordo il giorno del 7 ottobre. Nel 400, nella Frigia in Anatolia, attorno a un grande santuario sorse una città che, per evitare la complicazione del doppio nome, si chiamò Sergiopoli, dove i pellegrini accorrevano anche da luoghi lontani. I due santi non avevano la stessa fama o la stessa devozione per numero di chiese, di reliquie, di miracoli. La questione del nome può essere utile per trovare una spiegazione. Uno dei due, quando veniva nominato o invocato, richiamava alla mente il dio pagano delle orge, il cui ricordo era meglio rimuovere. In Sardegna, nella sua zona centrale, il processo si invertì. La devozione popolare si orientò diversamente, perché un sottofondo pagano, impermeabile a influenze esterne, creava una diversa sensibilità. Il san Bacco (Bacchus, in latino) del calendario e dei riti religiosi entrò nel linguaggio popolare come Bakis; era il nome, con l’aggiunta della consonante finale, col quale il dio era nato in antichi tempi nell’Asia Minore, rimasto in qualche angolo della memoria collettiva dei sardi. Dandogli il nome del dio pagano, il centro Sardegna adottava il santo cristiano e ne reinterpretava la figura. Nel suo culto e nella chiesa a lui dedicata si mescolano caratteri cristiani e pagani. Forse nessuno come uno studioso sardo, Francesco Alziator, ne ha colto meglio la natura, quando l’ha definita “un monumento unico”, dove tempi lontani di storia sarda, non solo pagani ma anche primitivi, trovano il modo di manifestarsi.
Più che nel retablo, la chiesa rivela il suo carattere in numerosi bassorilievi, divisi per zone e coordinati secondo un disegno comune. Già all’ingresso accolgono i visitatori, nelle lesene ai lati del portale. Sono rappresentati quattro personaggi, che per ragioni diverse potrebbero essere contadini al ritorno dal lavoro o guerrieri o sentinelle. Due di essi, senza alcuna ragione apparente, hanno il fallo scoperto, introducendo il tema della nudità, che si ritrova variato all’interno. Per complicare il quadro, tutti hanno in mano un oggetto arcuato. Si può pensare alla luna, le cui fasi regolavano il lavoro del mondo contadino, dai raccolti alle semine; e poi ancora alla falce, con cui si mieteva il grano sotto il sole di luglio; dietro c’era anche il ricordo dei turchi, armati di scimitarre, coi quali quasi trent’anni prima che la chiesa fosse terminata nel 1598, si era combattuta nel Mediterraneo orientale la battaglia di Lepanto; in essa un reggimento sardo aveva dato l’assalto alla nave ammiraglia nemica, quando ancora era incerto il risultato.
All’interno i bassorilievi si trovano distribuiti in due serie, in basso nelle paraste, in alto negli archi trasversi della volta a botte. Le paraste partono dai piedistalli, e salgono per tutta l’altezza delle pareti fino all’innesto della volta, dove c’è una cornice, che corre per tutta la lunghezza della chiesa. Da qui partono gli archi trasversi; si può dire che la loro linea curva è la continuazione della linea verticale sottostante. Le paraste dividono le cappelle laterali, che sono spoglie e anonime. Hanno gli archi d’ingresso e l’interno a sesto acuto, tipici del barocco, ma, essendo poco profonde, dilatano la larghezza della navata e della volta a botte sovrastante. Per di più i bassorilievi in basso interrompono lo slancio delle paraste, e in alto danno un ritmo al salire dei due semiarchi e si inseriscono nella struttura della volta, dividendo i suoi spazi in senso trasversale e anche longitudinale. Ne nasce l’impressione di una chiesa a impianto rinascimentale, che riduce quanto possibile lo slancio verso l’alto. Se ne ha conferma nel presbiterio, dove una volta a padiglione sostituisce la cupola; e nella facciata, dove la presenza di due nicchie, rimaste vuote, porta a spostare il cornicione dalla base del timpano verso il basso. Dal cornicione salgono dei rilievi, evidenti nella facciata, come per sorreggere la base delle nicchie e il rosone.
Unite dalle linee architettoniche, scene e figure rappresentate sono divise dai contenuti. In basso esse prescindono dalla fede; esemplare è la sirena bifida, che l’arte di Omero ha legato al mare e al mondo mediterraneo precristiano. Ci sono in genere rosacee. Al centro, tra la seconda e la terza cappella laterale delle pareti, si vedono scene di ballo. I bassorilievi hanno maggiori dimensioni, segno della loro importanza. Come i due personaggi del portale, i ballerini, in mezzo ai quali c’è una donna, e i suonatori, uno col doppio flauto, altrimenti detto launeddas, l’altro col piffero e il tamburo, hanno il fallo scoperto. Se nel portale la natura del luogo fa pensare all’esibizione, le scene dell’interno rimandano a un’usanza antica, quando, nelle chiese di periferia e di campagna, le feste religiose erano occasione per il ballo sardo, con la gente disposta a cerchio; da sempre sinodi e concili avevano manifestato contrarietà, e da sempre le cose si erano aggiustate in pratica. Suonatori e ballerini rivendicano la libertà della festa e si abbandonano al clima del ballo, che non vuole essere influenzato dalla natura del luogo.
In alto le figure sono prese dalla religione e dalla fede, scelte in modo da essere contrapposte fra loro. Angeli e demoni, riconoscibili dalle ali e dai volti deformi, si dividono le zone di influenza: i primi vicini all’ingresso, i secondi più numerosi, stranamente collocati in fondo alla chiesa. La contrapposizione ritorna, alla stessa altezza di due semiarchi, tra l’albero del frutto proibito, mostrato da Adamo ed Eva, e l’albero, rappresentante la chiesa e la salvezza, sorretto da Pietro e Paolo. Straordinaria, per capacità di penetrazione psicologica, è la rappresentazione della cerva inseguita dal cane, nel simbolismo medievale l’anima in fuga inseguita dalle tentazioni. Essa corre avanti, ma ha la testa completamente girata indietro, per poter almeno guardare il peccato, da cui deve fuggire. Infine due dragoni sono contrapposti nei primi due archi alla cerva e all’aquila, simboli del quarto evangelista. È l’animale che strisciando vive in simbiosi con la terra da cui l’uomo è emerso, sostituito nel racconto biblico dal serpente meno mitico e più reale.
Rimane un bassorilievo isolato ed enigmatico, che si trova sopra l’arco d’ingresso dell’ultima cappella a sinistra; si compone di tre parti sovrapposte, che salgono fino all’altezza della cornice. Riassume messaggi contradditori e lo spirito dell’intera chiesa, di cui può essere visto come il punto ombelicale, collegato a matrici lontane nel tempo. Al centro c’è la scena della crocifissione, inquadrata da colonne con capitelli floreali, su uno sfondo con volti di indefinibili personaggi. Il Cristo è nudo, e due donne, il viso rivolto verso di noi, sono accovacciate ai suoi piedi. In alto c’è il sole che sorge, emerso solo in parte sull’orizzonte; è indicato da un segmento circolare più denso, e i suoi raggi salgono, aprendosi a ventaglio. In basso, assumendo forma ovoidale, compare il faccione di Bacco, il dio pagano dei riti orgiastici, la cui fisionomia è stata conservata nelle anfore e negli affreschi dell’arte greca.
La nudità del Cristo, estranea al culto dell’Uomo-Dio, ha un aspetto dissacratorio in una chiesa, che espone altre figure falliche diversamente motivate. Le due donne non possono essere che le pie donne dei Vangeli, ma non hanno niente in comune con esse. Insieme con la nudità del Cristo, sono loro, sotto un’apparenza così dimessa, a rivelare con il loro atteggiamento una seconda natura di questa chiesa, che pure coesiste con la fede in Dio e nei santi. Confermano quanto aveva scritto un papa, giusto mille anni prima, parlando delle zone interne della Sardegna. L’idea del Figlio o dell’Uomo Dio non è mai entrata in qualche angolo della mentalità di queste zone, dove si è sempre opposta una barriera a quanto arrivava dall’esterno. Con le due donne si ritorna indietro, anche rispetto al senso pagano della vita, verso la religione primitiva della Grande Madre, per cui solo la natura è eterna, rappresentata da una donna indifferente, che tiene in braccio il figlio morto. Per esse anche la morte di un profeta e la violenza dei soldati nemici rientrano nelle sue leggi e nella normalità della vita.
La rappresentazione del sole induce istintivamente i costruttori a collocare nella parete di sinistra della chiesa, rivolta a oriente, un bassorilievo, che per la sua importanza simbolica poteva essere collocato nella corrispondente cappella di destra. Quello rappresentato è il sole della resurrezione, di cui tutti i Vangeli dicono in apertura di racconto che sorse insieme col Cristo all’alba del terzo giorno. Anche se è appena spuntato, i suoi raggi salgono, testimoniando la vittoria sulla morte e sugli dei pagani. Ma, visto nel suo contesto, è anche il sole che sorge ogni mattina sulla terra per aprire un nuovo giorno, col suo carico di lavoro e di pene, e guarda tutto dall’alto, le orge di Bacco come la scena del Golgota, il paganesimo come il cristianesimo. Altrettanto duplice è l’interpretazione del Bacco dalla forma ovoidale. Si trova in basso, sotto la scena della crocifissione e la nascita del sole: il paganesimo, di cui rappresenta l’essenza più di molti altri dei, è stato sostituito e sconfitto dalla nuova fede. Ma il suo faccione non esprime sofferenza né umiliazione; sembra interpretare la parte bassa come la base di ogni cosa, e indicare l’essenza del paganesimo come un aspetto ineliminabile dalla vita sulla terra.
Nella sua storia, Francesco de Vico osservava che a Bolotana c’è “un insigne tempio”, dove a maggio si fa una festa “molto famosa perché giungono da tutte le parti del regno a questa santa chiesa moltitudini di genti a causa dei molti miracoli che per intercessione di questo santo ha operato Dio nostro Signore. I pellegrini fanno voto ogni giorno di visitare il suo santo tempio per invocare una grazia. Questa devozione si è accresciuta con il nuovo tempio che è stato fabbricato sopra l’antico dalle elemosine dei fedeli che accorrono alla devozione di questa santa chiesa”. Proprio intorno a questo luogo di pellegrinaggi, per accrescerne il mistero, fiorivano strane leggende. Una di esse, quella delle “sinigoghe”, ha resistito fin quasi ai nostri giorni. Erano anime di donne defunte, che abitavano sotto la chiesa e uscivano nelle sue vicinanze per impadronirsi delle anime dei viandanti, quando commettevano l’imprudenza di avvicinarsi a una chiesa, che poteva essere testimone di miracoli durante le feste e diventare un luogo pericoloso quando rimaneva nella solitudine. I momenti in cui gli spiriti si risvegliavano erano il mezzogiorno e la mezzanotte, le ore opposte che invertono l’andamento del giorno e della notte. La caratteristica principale delle “sinigoghe” erano le mammelle molto grandi e allungate, che si gettavano alle spalle quando affrontavano qualcuno.
Se la festa pubblica e le sinigoghe della leggenda avevano il loro epicentro nel luogo di culto e nella corte attorno, l’influenza del santo si estendeva al di fuori, nella vita quotidiana del paese, mescolandosi con mentalità e tradizioni del tempo. Poco dopo il de Vico, un altro osservatore privilegiato, uno spagnolo che aveva la carica di vicario generale dei carmelitani in Sardegna, scriveva che “di tanto in tanto si trovano donne che dicono che un santo chiamato san Bacco entra loro in corpo e le altre donne vanno ad adorare a casa loro”. Queste donne possono ricordare le antiche baccanti del mondo greco antico, che si sentivano invasate dal dio, ma quindici secoli di cristianesimo e insieme il carattere del popolo, in cui erano nate, riducevano le antiche danze sfrenate a una preghiera in comune nelle case. In ogni caso dalle donne invasate e dalle “sinigoghe” venivano i riferimenti alla sessualità e a una femminilità contrastata. Dietro il dio pagano dell’ebbrezza e il santo cristiano protagonista dell’episodio del travestimento, il senso pagano e quello cristiano della vita si mescolavano, assumendo forme strane e imprevedibili.
C’è una strana usanza che si ripete ogni anno durante le feste di maggio e ottobre. Il secondo giorno della festa una processione parte dalla parrocchia per portare la statua della Madonna alla chiesa del santo, da dove, finite le funzioni, riparte per portare quella di san Bachisio in parrocchia. Il giorno dopo il percorso si inverte e le due statue si ritrovano nel loro luogo solito. Niente del genere avviene nelle altre chiese, il che significa che san Bachisio non viene considerato un santo come gli altri. Una volta all’anno ritorna nella chiesa parrocchiale del suo paese per ribadire il suo possesso, e pretende nientemeno che dalla Madonna che riempia il vuoto durante la sua assenza. Una impressione simile si ricava dalle cappelle spoglie e anonime: non c’è posto nella chiesa per altri santi oltre quelli del retablo vicini a san Bachisio, un martire antico che, per ragioni imprevedibili, si è trovato al centro di un culto particolare, un culto che ha reso difficile da interpretare anche la sua chiesa, costruita, come nel suo luogo ideale, nella zona centrale di un’isola misteriosa.
Giorgio Bussa