La quantità di immagini che quotidianamente si riversa su di noi comporta il rischio che il referente di quelle immagini, l’oggetto reale che dovrebbero descrivere, diventi per noi evanescente come le immagini stesse, finisca per apparirci quasi irreale, un cliché irrilevante, qualunque sia quell’oggetto. Perfino la guerra, dopo gli innumerevoli film che hanno cercato di raccontarla, o i reportages che l’hanno documentata, può perdere ai nostri occhi la sua forza tragica.
Uno dei meriti dell’ultimo film di Gianni Amelio, Campo di battaglia, ambientato all’epoca della I guerra mondiale, è essere riuscito a ridare pieno significato e valore al tema del film, la guerra appunto.
In effetti i campi di battaglia propriamente detti restano nel film quasi del tutto fuori campo. La battaglia - o le battaglie - di cui il film ci racconta avvengono lontano dal fronte, in un ospedale militare. Ma a darci il senso dell’orrore della guerra non è soltanto il campionario di ferite e di mutilazioni che vi sono concentrate, ma è un moto interiore dei ricoverati, che li accomuna quasi tutti: ed è il terrore di tornare al fronte, tanto che alcune di quelle orribili ferite se le sono procurati loro stessi, pur di fuggire dalla guerra.
Se tale impostura, ai benpensanti, può suscitare riprovazione, il sentimento che il film suggerisce invece allo spettatore è comunque di accorata solidarietà con i feriti, perché il fatto stesso che abbiano praticato quelle torture al loro corpo, dà il senso dell’inferno da cui quella povera gente ha cercato di trovare scampo.
Dicevo delle battaglie all’interno dell’ospedale. La prima è appunto tra i feriti e i medici, i quali hanno il compito di scovare i truffatori e di farli punire o di rispedirli al fronte. Di qui la patetica ostinazione con cui feriti e malati si sforzano di convincere il loro medico e giudice dell’autenticità delle loro menomazioni.
Ma c’è un’altra battaglia che avviene nel film, più caratteristica del cinema di Amelio, dove spesso si scontrano due uomini, uno più integrato nelle norme sociali; l’altro ribelle, trasgressivo, che sfida il primo ed è capace di mettere in crisi le sue certezze.
Qui si tratta di due medici: il primo esamina i malati con severità, animato apparentemente da sentimenti patriottici; l’altro, clandestinamente, aggrava i sintomi di alcuni dei malati, arriva perfino con il loro consenso a mutilarli purché si salvino dalla guerra.
Non è un conflitto fra un buono e un cattivo. Il medico zelante sembra avvertire quanto il proprio compito sia ingrato e perfino infame, e in un momento nei suoi occhi affiora un pianto di protesta quasi infantile. L’altro, dall’aria dolce e ispirata, esercita giocoforza un potere quasi diabolico come arbitro delle vite altrui, dovendo lui decidere chi salvare e come, e chi abbandonare al suo destino.
Il duetto fra i protagonisti, animato da attrazione e condanna, è quantomai sottile, sostenuto da due finissime interpretazioni: di Alessandro Borghi, nel ruolo del disobbediente, e di Gabriel Montesi nel ruolo dell’uomo d’ordine.
Quando nel racconto è introdotto un nuovo tema, quello della pandemia, dell’influenza “spagnola”, si resta disorientati, perché il tema della guerra era così intenso e forte che nelle nostre attese avrebbe forse dovuto dominare il film. Tuttavia si comprende alla fine che il secondo tema rientra nel duello psicologico fra i protagonisti, che ammette anche i colpi più estremi, magari inconsci.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 14 settembre 2024
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