L’ambientazione in un racconto anche cinematografico può essere evocata non soltanto descrivendo i luoghi in cui la storia si svolge, ma anche, in modo più sottile, più pervasivo, rendendo la mentalità dei loro abitanti.
Questo compito riesce ad adempierlo egregiamente l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, La vita accanto, tratto dal romanzo omonimo di Maria Pia Veladiano, basato su una sceneggiatura scritta anche da Marco Bellocchio.
L’ambientazione è la Vicenza tra gli anni Ottanta e Duemila. Un cattolicesimo oscurantista e superstizioso, il perbenismo, la paura degli scandali, la tendenza a soffocare i conflitti anziché affrontarli apertamente, sono tratti generali attribuiti a una società, che hanno un’influenza decisiva sullo sviluppo della vicenda.
In una famiglia rispettabile e altolocata di quella Vicenza nasce una bambina il cui viso è macchiato da una voglia rossa. E quel particolare cattolicesimo, dato come persistente in anni poi non così lontani, vede in quel connotato l’impronta del diavolo.
Lo ritiene tale anche la madre della bambina, che dall’euforia per la sua nascita precipita rapidamente nella depressione, tanto che si reclude in casa e vorrebbe recludere anche sua figlia, impedendole perfino di frequentare la scuola.
Assistendo a questa drastica involuzione del personaggio, lo spettatore può certo restare perplesso, perché non è facile immedesimarsi in lei, si fatica a credere in una fede religiosa tanto cieca, ci si può chiedere se la nascita della bambina non abbia forse riattivata uno squilibrio psichico già latente, che resta tuttavia indefinito (e ciò anche se l’attrice - Valentina Bellè - rende molto bene l’esaltazione e l’ascetismo del personaggio).
Ma via via che il racconto procede, comprendiamo che il suo centro focale non è la madre ma la bambina. E ci sembra allora giustificata una certa sfocatura del primo personaggio che resta come visto dall’esterno.
Il problema centrale del dramma è che la progressiva autodistruzione della madre pesa sulla crescita della figlia, che sospetta di esserne responsabile, sebbene il padre si prodighi a nasconderle la verità.
E tanto più si sentirà in colpa, quando manifesterà in modo spontaneo e sincero alla madre tutta la propria irritazione verso di lei, temendo così di averne affrettato l’autodistruzione.
Crescendo, la bambina, sotto le cure della zia che è una pianista affermata e una donna tanto più libera della madre, svilupperà un eccezionale talento musicale. Eppure il senso di colpa continuerà a farla sentire una creatura segnata, tanto da suscitare lo stesso pregiudizio negli altri, per esempio nei suoi compagni del conservatorio, che praticheranno perfino una specie di violenza di gruppo contro di lei.
Ma il film racconta anche del suo originale, intimo, processo di liberazione.
Ho parlato dell’influenza dell’ambientazione, che conta però solo per quanto incide sul percorso psicologico della protagonista che è il vero tema del film.
Tale impostazione consente all’autore di dispiegare le sue doti migliori: la finezza introspettiva, l’abilità nella definizione dei personaggi: della protagonista, ma anche dei comprimari, assecondato da un gruppo di attori molto bravi tra i quali voglio ricordare almeno Beatrice Barison, nel ruolo della figlia già adulta, Sonia Bergamasco nel ruolo della zia, e Pietro Pierobon nel ruolo di un marito e di un padre affettuoso ma come impotente a fare il bene della moglie e della figlia.
Il film è stato presentato al Festival di Locarno dove l’autore ha ricevuto un Pardo alla carriera.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 31 agosto 2024
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