Il Villaggio di Gennaro, “opera teatrale di un atto unico, tre scene e un epilogo, densa di spunti ‘fotografici’ e di dialoghi brillanti, è assolutamente pronta per le scene. A condizione che intervengano attori e regista muniti di quello ‘spirito artigianale’ capace di dare o conservare vita alle cose, le quali già nella loro essenza racchiudono un valore”. (A. P.)
Personaggi
Gennaro - geometra e mosaicista
Liberata - una conoscente
Romolo - meccanico, vicino di bottega di Gennaro
Annetta - assistente domiciliare
Aladdin - vucumprà
Daniele - cantastorie
Giacomo e Michela - due “compagni”
Don Tonino - parroco della chiesa madre
Ninita - assistente domestica del parroco
ATTO UNICO
Mattino d’inverno, interno bottega artigianale. Tempo attuale, in una cittadina nei dintorni di Roma.
Scena prima
(Gennaro e Liberata)
Un locale lungo e stretto rischiarato da un lucernario. Due banconi lungo le pareti laterali con gli attrezzi del mestiere. Al centro uno stretto passaggio, occupato da una brandina pieghevole. Nella parete in fondo, accanto ad una porticina con una tenda scorrevole, una campionatura di mosaici. Sul bancone a sinistra, una fila di cassette di plastica con i vari materiali impilate fino al basso soffitto, e sotto bustoni rigonfi spinti contro il muro. Nella parte del ripiano vicino all’entrata un piccolo televisore in bianco e nero, una sveglia ticchettante, portaritratti con foto ingiallite e immaginette sacre. Un frigorifero da tavolo, una tanica d’acqua con rubinetto, una piastra a corrente, stoviglie essenziali formano l’angolo cottura. Nei pressi un gattone sonnecchia raggomitolato in una cesta.
Su tutto aleggia una coltre di polvere bianca.
Si sente tossire, dalla porticina in fondo entra Gennaro, in pantofole, con un asciugamano sulle spalle; sulla settantina, di media statura, capelli bianchi folti, la barba di alcuni giorni, l’andatura zoppicante. Chiude la brandina e la sistema a fianco dello scaffale di destra... Accende la luce, comincia a cercare gli occhiali.
GENNARO Li avevo messi qui. Al solito posto. Qui devono stare… (tasta con le mani sul bancone, sfiorando attrezzi e oggetti vari, con calma, quasi con allegria, trova gli occhiali con le spesse lenti da vista, e piano l’inforca) …e qui stanno. La casa non ruba, nasconde, diceva povera mamma. (Si dirige verso il televisore e alza il volume. Scuote la testa. Fa il verso al cronista, mentre prepara la macchinetta del caffè. Si alternano la voce dello speaker e i commenti di Gennaro). Shopping, scattano i saldi… ‘giusto mi servono un paio di pedalini di lana’. Mini Imu… ‘e a me che ne importa’. La legge di stabilità non ha dato un assetto stabile… ‘ma guarda un po’’. Tari, Tasi… ‘Iuc, Luc, Tares e trallallero’. Ma al governo sono ottimisti… ‘e li pagano apposta!’ Lo spread scende, rimonta l’economia…‘finché la barca va, lasciala andare’ (si versa il caffè e lo beve con gusto seduto su uno sgabello mentre guarda la televisione. Tolto l’asciugamano mette una sciarpa e alza la serranda. Spegne le luci, poi le riaccende. Tira fuori da sotto il bancone il calendario nuovo e lo appende al posto di quello vecchio, pieno di annotazioni. Il gatto si stiracchia, Gennaro gli fa una lunga carezza, riprende a parlare come rivolgendosi ad esso). Caro mio, anche questo Natale è passato. Ad oggi, mi sono fatto settantaquattro natali. E ancora aspetto quello che ho chiesto al Bambinello quand’ero piccolo. (Rivolto alla foto della madre nel portaritratti) Tu lo sai, ma’, quello che voglio io. Lo sapeva pure papà, ma lui continuava a regalarmi i testi d’ingegneria. Papà mi voleva ingegnere, ma io volevo fare il muratore. (Rivolto al pubblico) Che c’è di male a fare il muratore? Se non ci fosse il muratore, a che servirebbe l’ingegnere? Che lo faccio a fare un progetto, se poi non c’è chi lo realizza? A regola d’arte, beninteso. Che vuol dire “a regola d’arte”? Chiedilo a un pittore, a un fabbro, a un falegname. Chiedilo a un orafo. Tutti sanno che cosa vuol dire “a regola d’arte”, ma non te lo sanno spiegare. I bravi artigiani creano, costruiscono, ma non stanno lì a dare spiegazioni. Tu osserva le cose che fanno e sta lì la risposta. Se proprio la vuoi sapere. Quando le cose funzionano e sono belle e sono durevoli allora vuol dire che sono fatte bene: “a regola d’arte”. Che gli avevo chiesto al Bambinello che non potesse darmi? Volevo essere un bravo artigiano, come suo padre. Ma poi chi me lo dice che Giuseppe fosse un bravo artigiano? da chi aveva imparato, chi era stato il suo maestro? La scuola è importante, per diventare bravi artigiani. Il talento ce l’hai, se ce l’hai, ma poi ci vuole la tecnica, esperienze di apprendimento, idee nuove da esprimere nel campo. (Torna a spegnere la luce, è una giornata grigia ma ci si vede abbastanza. Mette sulla piastra la pentola con l’acqua, da un sacchetto tira fuori le verdure e inizia a pulirle) Anche oggi solita minestra. Le verdure fanno bene, aiutano l’intestino, diceva sempre povera mamma… lei che soffriva tanto di stipsi…
LIBERATA (suona la campanella appesa fuori dalla porta. Entra una donna di mezz’età, affannata, e dopo un saluto affrettato prende a rovistare nella borsa della spesa). ‘Giorno, Genna’.
GENNARO Buongiorno Libera’, che porti di buono?
LIBERATA La solita zucchina. Se le vendono a peso d’oro, ‘ste cocozze de serra.
GENNARO E tu fatti un orticello urbano.
LIBERATA Genna’, io abito alle case popolari, al terzo piano senza ascensore. Sul balcone ci metto i gerani e quando è stagione il basilico.
GENNARO Se ci metti il cavolo riccio fai un viaggio e due servizi: fiori e frutto. Povera mamma li piantava sempre, rosa, violetti, gialli, poi ci faceva la zuppa.
LIBERATA Grazie del consiglio Genna’, ricordamelo in primavera. Hai dormito bene stanotte?
GENNARO Come un angioletto. C’era povera mamma che mi cantava la ninna nanna.
LIBERATA La solita?
GENNARO La solita. Ninna nanna, nanna ninna, er pupetto vo’ la zinna: dormi, dormi, cocco bello, sennò chiamo Farfarello…
LIBERATA …Farfarello e Gujermone che se mette a pecorone.
GENNARO La sai pure tu?
LIBERATA Genna’, me la canti tutte le mattine. E poi, chi è che non la conosce, ‘sta ninna nanna de guerra?* (*La ninna-nanna de la guerra di Trilussa, nda).
GENNARO Eh, la guerra. Mi ricordo quando gli alleati sono arrivati a Roma, i fiori infilati nelle bocche dei fucili, canti e balli, tutti a battere le mani… io in mezzo a tutta quella folla a raccogliere tavolette di cioccolata e caramelle…
LIBERATA Eh già, tu abitavi a Roma.
GENNARO All’Alberone, vicino all’Oratorio… e alla sezione del PCI attaccata alle case popolari. Prima della guerra lì c’erano sparse le botteghe degli artigiani… veri lavoratori, m’hanno insegnato tante cose. Io già da piccolo aggiustavo le prese della corrente, il ferro da stiro… certe scosse! Pure mio nonno aveva una botteguccia, faceva i canestri e impagliava le sedie. Ma faceva pure il contadino, aveva un pezzetto di terra al paesello che era la sua passione…
LIBERATA Tutti facevano i contadini, all’epoca, si campava di verdure, roba sana.
GENNARO Povera mamma la verdura la comprava al mercato, lei la terra nemmeno la conosceva. Mio padre poi, si vergognava del suocero: canestraio e contadino.
LIBERATA Che lavoro faceva tuo padre?
GENNARO Lavorava a un Ministero, non mi ricordo quale. In mezzo alle scartoffie, e si sentiva un signore! Povera mamma era maestra, ma non ha mai insegnato. Mio padre era un conservatore, le donne per lui dovevano lavorare solo per la famiglia.
LIBERATA Mentalità, allora si ragionava così.
GENNARO Mio padre non ha mai ragionato e ha sempre dettato legge, un despota. A me m’ha fatto studiare per forza, io volevo fare il muratore e lui voleva che diventassi ingegnere.
LIBERATA Io volevo studiare e invece m’hanno mandata a servizio che ero ancora pupetta. E quello continuo a fare: le pulizie a ore.
GENNARO E t’hanno pure chiamata Liberata! Com’è che t’hanno dato ‘sto nome?
LIBERATA Sono nata il 25 aprile nel Cinquanta.
GENNARO Quinto anniversario della Liberazione. Io nel Cinquanta facevo la quinta elementare.
LIBERATA Genna’, io vado. La padrona m’aspetta…
GENNARO E ti chiami pure Liberata… (La donna esce. Gennaro si guarda intorno incerto, come non sapendo da dove cominciare, prova e riordinare il bancone ma rinuncia, riprende a pulire le verdure).
(Gennaro e Romolo)
Suona la campanella ed entra il vicino di bottega di Gennaro. Indossa la tuta da meccanico, le mani e la faccia macchiate d’unto, una sigaretta incollata alle labbra.
GENNARO Buongiorno Romole’, come ti butta la giornata?
ROMOLO Storta. Già me lo sento: oggi solo rogne.
GENNARO Ma allora è vizio! Sempre a lagnarti! Sei giovane e forte Romole’, avessi io l’età tua, la forza tua… la salute tua…
ROMOLO Giovane e forte tu ci sei stato, eppure che hai fatto? Io ti stimo Genna’, tu lo sai, ma secondo me non ti sei saputo gestire… potevi essere ricco, oggi.
GENNARO E tu, col mestiere che fai? A palate potresti fare i soldi, se non te ne andassi sempre in giro lasciando la bottega chiusa. Sai quanta gente viene e non ti trova, non rispondi al cellulare, e poi vengono da me a chiedere che fine hai fatto, se lavori ancora o se hai mollato tutto.
ROMOLO L’idea ce l’ho, di mollare tutto e aprire un agriturismo. Avrei pure il rustico e un appezzamento di terreno, eredità di famiglia. Ma mia moglie, la conosci, no? lei vuole tutte le comodità sotto casa, tutti i servizi a disposizione, tutti i collegamenti possibili con la capitale. Mia moglie soffre di shopping compulsivo, io lavoro e lei spende e spande, hai capito perché così non posso andare avanti? Beato te, Genna’, che non devi pensare a nessuno…
GENNARO E nessuno pensa a me. Prima c’era mamma…
ROMOLO Le madri non sono eterne, nessuno è eterno. Ma tu, una donna, l’hai mai avuta?
GENNARO (indicando le foto) Certo che l’ho avuta, e pure bella. E ce l’ho ancora, tutte le notti mamma mi fa compagnia, mi culla, mi canta la ninna-nanna…
ROMOLO (burbero) Io sono nato orfano, non so nemmeno chi è stato che m’ha messo al mondo. Sono cresciuto in un collegio di trovatelli, a fame e freddo. Ecco perché mi sono sbrigato a fare una famiglia. Col bel risultato che i figli non sono venuti e mia moglie che passa più tempo a gironzolare per negozi e a fare musicoterapia, che a mandare avanti la casa. A me, poi, non mi pensa proprio, tanto c’è la donna di servizio.
GENNARO Mi dispiace Romole’, il discorso ha preso una brutta piega. Sono tempi strani, non li capisco, le donne una volta erano devote al marito, adesso si sentono certe cose… (entrambi tacciono per ascoltare la televisione) ‘Donna uccisa a martellate dal marito davanti ai figli…’.
(Romolo saluta ed esce, Gennaro sciacqua e versa le verdure nella pentola).
(Gennaro e Annetta)
Suona la campanella, entra Annetta, l’assistente domiciliare. Giovane e carina, indossa camicia a quadri e jeans attillati, si muove nel bugigattolo con espressione scontenta e gesti nervosi.
ANNETTA Sei pronto Genna’?
GENNARO Prontissimo, Anne’. (Gennaro prende una sedia, la volta verso la vetrina, siede con espressione beata. L’assistente infila i guanti, gli fa reclinare il capo all’indietro, gli mette al collo un asciugamano monouso, prepara l’occorrente e inizia la rasatura).
ANNETTA Beato te Genna’, che non hai figli. (Gennaro tace, con la faccia bianca di schiuma, e la guarda contrariato. Annetta prosegue, sempre più concitata, senza rilevare il disappunto di Gennaro) Uno li mette al mondo con tanto amore, e loro ti ripagano con l’ingratitudine. Questa cosa l’ho detta stamattina a mio figlio e lui sai che cosa m’ha risposto?
GENNARO No. Che ti ha risposto?
ANNETTA M’ha risposto: “A ma’, e chi t’aveva chiesto niente? e tu, mi avevi forse chiesto se al mondo io ci volevo venire?”. Hai capito, Genna’, che mi sono sentita dire? Ma io queste cose qui non le permetto. Gli ho mollato una schicchera che ancora mi brucia la mano. E non me ne pento. Genna’, a te lo posso dire: nemmeno a me qualcuno aveva chiesto se volevo mettere al mondo un figlio, è successo e basta. Poi il padre ha preso il volo e non s’è più visto. E io a quel figlio gli ho fatto da madre e da padre. Ma gli potevo essere sorella, per l’età che avevo. (Nella foga del discorso, Annetta nel maneggiare il rasoio tagliuzza la guancia di Gennaro, che prende a sanguinare. Annetta interrompe la rasatura e tampona) Genna’, pure tu ti ci metti? Ma non potevi stare fermo? A me già mi trema la mano…”.
GENNARO Scusa tanto, Anne’, se ti ho pòrto la guancia per farmela trinciare… vabbe’ che so’ compagno, ma mica Cristo l’ho ammazzato io!
ANNETTA (scoppiando a piangere). E che l’ho ammazzato io?
GENNARO (pulendosi con l’asciugamano il viso e alzandosi). E se Cristo fosse morto di freddo? (Si accosta ad Annetta e le asciuga le lacrime con il dorso della mano, poi pesando le parole) Anne’, io non ho figli ma sono stato figlio. E non è facile essere figli come non è facile essere genitori. Nel caso tuo, doppia fatica, ma vale anche per tuo figlio.
ANNETTA Dici che sono una cattiva madre?
GENNARO Ma ti pare? Gennaro che si mette a fare il giudice?
ANNETTA Non mi chiedi perché stamattina ho dato dell’ingrato a mio figlio?
GENNARO Perché stamattina hai dato dell’ingrato a tuo figlio?
ANNETTA Perché è un ingrato! Gli ho chiesto se uscendo mi portava fuori il contenitore dell’umido e sai che m’ha risposto?
GENNARO Che ti ha risposto?
ANNETTA Che quello è un lavoro da donna, mica da uomini!
GENNARO Quanti anni ha, tuo figlio?
ANNETTA Quasi sedici.
GENNARO Ah be’… allora gli sarà spuntata pure la barba…
ANNETTA Se la fa tutte le mattine, ha ripreso dal padre: nera, fitta…
GENNARO Anne’… ti brucia ancora, la mano?
ANNETTA Dici che ho fatto male a dargli quello schiaffone?
GENNARO (rimestando nella pentola) La zuppa deve bollire piano, a lungo, tutto si deve amalgamare ma senza disfarsi, la patata resta patata, la zucchina resta zucchina, il cavolo resta cavolo…
ANNETTA Ho capito Genna’, cambi discorso.
GENNARO …e gli ingredienti, tutti insieme, danno un sapore unico, secondo come li tratti… e zumpappazum…
ANNETTA Vado Genna’, s’è fatto tardi. Ancora un paio di assistenze e torno a casa, oggi pure io faccio il minestrone. Grazie per la ricetta…
Uscita Annetta, Gennaro muove qualche passo all’esterno, commentando tra sé il traffico caotico, i comportamenti scorretti di automobilisti e pedoni, le cattive condizioni della strada.
(Gennaro, Aladdin, Daniele)
GENNARO Dài, dài, dài correte, supera supera supera che arrivi primo, ma dove? Vai vai vai, buca buca buca buca con sassi… (con riferimento ai film di Dino Risi “Il Sorpasso”, 1962 e “Il federale” di Luciano Salce, 1961). Bei film, anni belli, il boom economico… il rimbambimento… E c’erano le strisce, i vigili… che fine hanno fatto i vigili? Buoni solo a fare multe! Che diceva Albertone? (citando Alberto Sordi, protagonista de “Il vigile” di Luigi Zampa, 1960) “È meglio che ti ci abitui da piccolo alle ingiustizie, perché da grande non ti abitui più!”.
Sopraggiunge Aladdin, un giovane di colore alto e magro con un pesante zaino sulle spalle, le braccia cariche di merce, che si rivolge con gentilezza a Gennaro.
ALADDIN Tutto bene, papa?
GENNARO (pensoso ). Boh… bah…
ALADDIN (fa per allontanarsi, a testa bassa, ma poi si volta sorridente). Mi hai chiamato, papa? Ti servono calzini? kleenex? panni cucina per tua sposa?
GENNARO (sbuffando) Primo: non sono papa e nemmeno papà. Secondo (mostrando il suo piede vistosamente bendato): sì, mi servono i pedalini, ma quelli speciali di cotone, che costano un sacco di soldi, perché ho il piede diabetico. Terzo: non ho una cucina e nemmeno una moglie, che me ne faccio dei panni?
ALADDIN Oh oh, tu scusa, io vado…
GENNARO Ma che hai capito? Io ti racconto le mie cose e tu mi pianti in asso?
ALADDIN Tu hai piede malato? Tu non hai cucina? Tu non hai moglie? Povero papa… papà.
GENNARO Senti, io mi chiamo Gennaro…
ALADDIN Ah, come miracolo sangue sciolto?
GENNARO Quello è san Gennaro, e quando si scioglie il sangue mio? Denso com’è di glucosio… regalo di mio padre, che lo ricevette da mio nonno, ma finisce qui perché io non lascio eredi…
ALADDIN (tace, con espressione perplessa. Poi si presenta) Mio nome Aladdin.
GENNARO Il genio della lampada!
ALADDIN Lampada? (Tirando fuori dal borsone una lampada a batteria) Ecco lampada, prova, fa luce…
GENNARO (ridendo) Aladdin, sei una favola!
ALADDIN (armeggia con la lampada, ma non riesce a farla funzionare. Stizzito, borbotta qualcosa nella sua lingua frammisto a qualche imprecazione nostrana) yallah… kara… merda!
GENNARO Lascia stare Aladdin, non ci sprecare le parolacce, tanto la lampada non mi serve… (Tende l’orecchio, si sente da lontano suonare una fisarmonica) È lui, e come ti sbagli! (Arriva il cantastorie, Daniele, robusto e agile, con la tuba e una giacca da frac, continuando a suonare. Alla fine del pezzo applausi e scambio di saluti).
GENNARO Ehilà, donde vieni, onde vai?
DANIELE Di strada in strada, dove lei (indicando il suo strumento che gli pende sul petto) mi porta. E tu, amico, come stai?
GENNARO (con un risolino) Da papa (fa le presentazioni) Lui è Aladdin, lui è Daniele.
ALADDIN Felice conoscere te, piace tua musica.
DANIELE (riferendosi alla merce imbracciata dal ragazzo) Anche a me piace il tuo armamentario. (riprende a suonare e a cantare con energia) Libertà l’ho vista dormire/ nei campi coltivati/ a cielo e denaro/ a cielo ed amore,/ protetta da un filo spinato… (De Andrè, Il suonatore Jones).
Qualche passante si ferma, presto si crea un capannello di gente, battimani. Con gesto aggraziato il cantastorie si toglie la tuba e la poggia in terra, nel piccolo cerchio degli spettatori e calorosamente ringrazia. Tintinnio di qualche moneta, qualcuno si allontana, il capannello si scioglie. Il cantastorie raccoglie monetine e tuba, si assesta sul petto la fisarmonica).
ALADDIN (premuroso) Portare io tuo strumento?
DANIELE Amico caro, mi vorresti spogliare? (di rimando) Portare io tua merce?
GENNARO (sbrigativo). Ma dove andate! Entrate, si fa colazione.
Il Villaggio di Gennaro di Maria Lanciotti, in versione definitiva, è stato pubblicato con Edizioni Controluce nel 2016 nella Collana Drammaturgia. Tutti i diritti riservati.
[Il Villaggio di Gennaro, 1ª parte - segue]