Divisa in sette sezioni, la silloge di Guglielmo Aprile, Tutto l’oro del mondo, trabocca di luce, a cominciare dal fascino dell’alba col sole che colora l’oriente: “dal calice del sole stilla un nettare che invade i campi e le vene ne inonda”; poi si alza piano piano sulla terra umida di notte “una neve dorata che si stende su tutto ciò che è verde, un luccichio che imperla i sassi e l’erba”. Il trionfo del mezzogiorno è infuocato - “Febbre del mezzogiorno, il cielo brucia” - quando cielo, terra, uomini e cose sono nella fiamma e “il mondo arde di un fuoco mite, e dello stesso rogo che lo consuma nutre il suo rigoglio”. Come un innamoramento è quello che si legge nei versi di Guglielmo Aprile, una gioia così folle davanti allo splendore di cieli, terre e mari, che fa nascere il desiderio di perdersi, di dissolversi in essi: “non più distinti ma una cosa sola io e la scena che ha per sipario i sensi”, e contiene echi di panismo dannunziano.
Non solo si colgono le meravigliose forme del creato, ma se ne ascoltano le voci, i suoni, i canti, fin dall’alba annunciata dal primo passerotto e dal merlo: “il primo passero si è affacciato da un pulpito balaustrato di rami, rabdomante del giorno”. Poi arriva il canto di tutti gli uccelli destati al giorno che nasce, che ha l’allegria di giochi di fanciulli: “Dal fogliame uno strepito, uno scoppio di risate infantili”. Se il cielo è invaso di luce tanto da non contenerla: “Non basta il cielo a contenerla tutta questa luce: ne straripa, ne è gravido”, il mare accoglie e moltiplica la luce che si spinge giù: “un manto fluttuante sul fondale, venato da riflessi che si accendono, tra la sabbia e i sassi, di lampi d’oro”. La luce lo appiattisce al mattino - “Distesa calma al mattino” - e più tardi “il mare palpita come in fiamme”. Il sole è il dio pagano che permette la vita, la luce è tanto intensa che sembra prossima a partorire un dio d’oro: un senso di profonda sacralità si respira in questi versi - dove la metafora fa da padrona - nella scelta stessa del registro linguistico: l’ostia incandescente, resuscita, presbiteri, mitrei, unzione del fuoco, consacra. La luce che invade il mare, la voragine del cielo e la terra, è così “deliziosa” che forse è la stessa che vide Dio sul neonato pianeta; su tutto si stende il respiro e l’occhio di Dio: “Dio respira, e le stelle e le città sono il suo alito”.
Una profonda gratitudine va a quella luce che è fonte di ogni vita: “unico e vero compenso che spetti in cambio all’uomo, per ogni suo male, e impareggiabile messe del vivere”; luce che annienta ogni divisione e fa di tutto ciò che abbraccia un unicum dorato “nel vortice in cui tutte le cose sono una sola, sono oro e musica”. A quella divinità “ogni essere che faccia ombra sopra la terra, s’inginocchia colmo di gratitudine a ricevere dal cielo l’unzione del fuoco, il segno che lo consacra”. Quel sole che “apre i propri occhi nei miei, mi penetra con i suoi raggi”, alimenta una forza gentile, un desiderio di essere accolto, di trasumanare: “gli uni negli altri i corpi in un impersonale oro si sciolgono”; di valicare i confini della propria pelle: “Non sono più rinchiuso in questa pelle e del mio corpo scavalco i confini, il bianco miele del sole mi inonda; morto è in me l’uomo, e resuscita in polline”. Concetto che rimanda a Dante: “trasumanar significar per verba / non si poria”, fino a evocare Walt Whitman di Foglie d’erba col senso della continuità della materia: “Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà non vi è morte, / E che se mai c’è stata conduceva alla vita, […] Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta”. Una raccolta, quella di Guglielmo Aprile, che ha finalmente il coraggio e la volontà di sollevare un canto alla bellezza, al dono della vita, lontana da ogni inutile ripiegamento su scontati e diffusi dolori.
Marisa Cecchetti
Guglielmo Aprile, Tutto l’oro del mondo
Carabba, 2024, pp. 136, € 15,00