Barabba (Bar-abbâ) come il ribelle degli Zeloti per volere della folla liberato al posto di Gesù.
Barabba, come la romantica figura interpretata, anzi disegnata in un celeberrimo omonimo film, Anno Domini 1961, per la regia di Richard Fleischer (tratto dall’omonimo romanzo del Premio Nobel per la Letteratura 1951, lo svedese Pär Fabian Lagerkvist), da quel mostro di bravura di Anthony Quinn.
Barabba, come Renzo Bariviera, oggi 75enne, il primo giustiziere di una formazione Stars and Stripes.
Fu il leggendario Cesare Rubini, hall of famer sia nella pallanuoto (oro olimpico a Londra 1948) sia nella pallacanestro, ad appioppargli il soprannome che da allora avrebbe distinto il simpatico e intelligente guascone della nostra pallacanestro (il loro fu un rapporto di stima con tratti, talora, di burrascosità). Atleta di eccelsa caratura, un uno contro uno, a dir poco, fulmineo e fulminante, davvero di micidiale forza e sapienza, Renzo fu colui che pescò il 21 maggio 1970 nella splendida – asburgico-mitteleuropea e, insieme, titoina – Lubiana, una magnifica perla dal mare dei suoi vent’anni.
Si era alla sesta edizione dei Mondiali… Il famoso gancio contro gli americani… Al momento non mi resi conto della storicità dell’evento. Avevo segnato il canestro decisivo contro i maestri del gioco. Con l’incoscienza della mia giovane età, il pallone in mano e nessun compagno smarcato, eseguii il mio gancio. Che andò dentro. Quel tiro mi diede un marchio indelebile, in positivo. Un tiro in gancio, questo tipo di tiro, sostanzialmente immarcabile – Jabbar docet – quasi scomparso dai campi di gioco. Insieme con il nostro a calcare il parquet – 6 i suoi punti – c’erano quel giorno Flaborea (2 punti), De Rossi, Recalcati (8), Bisson, Masini (14), Zanatta (8), Meneghin (8), Giomo, Errico, Cosmelli (10), Rusconi. Una gran bella compagnia. Quell’Italia fallì il podio iridato per un soffio, preceduta da Jugoslavia, Brasile e URSS. Dietro si mise, però, USA, Cecoslovacchia, Uruguay, Cuba, Panama, Canada, Corea del Sud, Australia, Egitto. Ma quel trionfo, 66-64, fu uno degli spartiacque del nostro cestismo.
Lunga è stata la carriera in azzurro di Bariviera, classe 1949, dal 2012 nella Italia Basket Hall of Fame: due bronzi europei, 208 presenze per un totale di 2.151 punti e una media-partita di 10,3 punti, con un top di 29; esordio, bagnato di 6 punti, il 4 settembre 1969 in un’Italia-Austria 76-38 (con lui, in quella circostanza, Ossola, Recalcati, Bovone, Masini, Bergonzoni, Zanatta, Bisson, Cosmelli, Jessi, Giomo, Meneghel) – così come longeva si è rivelata la sua carriera nel massimo campionato, le cui scene avrebbe abbandonato soltanto alla soglia dei fatidici “anta”.
Una storia, quella di Renzo, che aveva avuto un fratello professionista nel ciclismo, Vendramino, iniziata nelle file del Petrarca Padova, dove aveva evoluito tale Doug Moe, sublime attaccante e futuro mirabilissimo allenatore NBA. Un viaggio nel sublime infinito del parquet, che l’avrebbe poi condotto ovunque e altrove, sebbene la sua terra d’elezione sia stata la Lombardia, in primis Milano e Cantù… A Padova esisteva una vera cultura del basket, praticato soprattutto da universitari. Ricordo che ben otto dei compagni con cui giocavo erano laureati. Una sorta di sport d’élite. Io, tuttavia, ebbi subito l’opportunità di venire a Milano, con le scarpette rosse dell'Olimpia, la squadra più famosa d'Italia. Anche a Cantù ho vissuto un bel periodo, vi ho vinto molto. Non dimentichiamo, difatti, la doppietta brianzola in Coppa dei Campioni, la seconda delle quali in quel di Grenoble contro la sua ex squadra, la Pallacanestro Olimpia Milano, che poi sarebbe tornata ancora la sua in uno strano e particolare gioco a elastico delle casacche. La partita nella città di Marie-Henri Beyle detto Stendhal, innamorato di Milano, fu decisa in favore di Cantù e a detrimento di Milano da un tiro scagliato sul ferro, allo spirare del tempo e sull’eco della fatale sirena, da Franco Boselli, Boselfranco, il gemello che tirava con la mano destra, un esterno, di caldo cuore e mano fredda, che per il solito quei tiri li metteva implacabilmente dentro. Gli dei della palla a spicchi avevano evidentemente optato per Cantù.
Ma rifulgono più vivide le memorie legate alla maglia azzurra o quelle legate alla vita di club (oltre a Milano e Cantù, nel destino di Barabba ci furono Forlì e il Gira Bologna targato Fernet Tonic)? Con la canottiera della Nazionale ti fai carico delle aspettative di un Paese intero e te ne accorgi in particolar modo quando vai all’estero ed entri in contatto con le comunità italiane lontane dalla patria. Certo nella società in cui militi vivi la quotidianità della pallacanestro e ti si forma il carattere. Nel palmarès barivieriano, oltre a due edizioni della massima competizione continentale, vi sono quattro scudetti (1972, 1981, 1985, 1986), una Coppa Italia (1986), una Coppa Korac (1985), quattro Coppe delle Coppe (1971, 1972, 1979, 1981), una Coppa Intercontinentale (1982). Scusate se è poco.
Ma il suo micidiale uno contro uno avrebbe avuto successo anche adesso. Ancora negli occhi abbiamo le immagini della travolgente furia agonistica di Barabba in terra scozzese, a Edimburgo, nel 1976, per le qualificazioni olimpiche, contro i plavi di Krešimir Ćosić, Dražen Dalipagić e Mirza Delibašić, una squadra di fenomeni cestistici Talvolta ci penso e ritengo che avrei potuto ben giocare anche adesso, perché con il tiro da 3 le difese, pur aggressivissime, si sono molto più allargate, dilatando, con ciò, gli spazi per l’uno contro uno, che era il mio pezzo forte.
Un unico rimpianto… Forse avrei potuto tentare la strada degli Stati Uniti – s’è accontentato di batterli… – che ho incrociato anche, in un torneo a Messina, nei panni di un biondino, giovanissimo: un certo Larry Bird… che ho anche marcato. Era già fortissimo.
Sembra ieri.
Grazie, Barabba, per quel gancio cielo tricolore e per le emozioni che ci hai donato.
Alberto Figliolia
(Articolo rivisitato, a suo tempo comparso
sulla rubrica Cestovagando-dailybasket.it)