Un bel film uscito di recente, dal titolo El Paraìso, diretto da Enrico Maria Artale, propone un punto di vista insolito intorno alle idee di normalità e di anormalità.
La situazione che per tutta la prima parte ci descrive il film appare inevitabilmente allo spettatore come anormale, e di un’anormalità patologica, tale dunque da indurre sofferenza in chi la vive.
Un uomo, in età più che adulta, quasi matura, convive in un appartamento con la madre, la quale, senza il marito, immigrata a Roma dalla Colombia, disorientata, nostalgica della madre patria, di cui ha voluto ricreare nell’appartamento l’estetica e il folklore, a volte infelice, ma anche estrosa e vitale, sembra aver trovato nel figlio la propria unica ancora nella realtà romana, la propria unica passione, e con un tale attaccamento, una tale violenza di sentimenti, da impedire al figlio di sviluppare una vita autonoma, soprattutto privata e amorosa.
Lui si incontra a volte furtivamente con delle prostitute, ma se decide di intraprendere una storia d’amore più articolata, di ospitare una ragazza nella propria camera da letto, va incontro a irruzioni improvvise della madre, a scenate di gelosia, addirittura a minacce a mano armata contro la donna sospettata di essere la sua amante.
Ho parlato di anormalità, e si sa che ciò che non corrisponde a quanto riteniamo normale può facilmente indurre al riso.
Ora, una caratteristica del film di Artale, è che seppure la situazione che illustra appare a momenti grottesca, l’autore ci mette così a contatto con il dolore dei personaggi, in particolare della madre, ma anche con la pena del figlio, compresso nella sua vitale indipendenza, che non possiamo mai irridere quei personaggi.
Perfino una condanna moralistica ci viene impedita, perché comprendiamo che la madre compie il male con leggerezza, senza potere o volere rendersene conto; e il figlio accetta la mutilazione della propria vita come per un eccesso di pietà filiale.
E se a noi spettatori, testimoni esterni, quella condizione di vita appare anormale, soggettivamente è vissuta dai personaggi come la loro normalità, perché si è sedimentata negli anni, vi si sono adattati, non desiderano davvero trasformarla.
Con lo stesso senso di assuefazione accettano la contiguità con la criminalità romana, in particolare quella coinvolta nel traffico di stupefacenti.
Va detto che quando si interrompe il rapporto tra madre e figlio, perché la madre muore, il racconto perde un po’ della sua poetica ambiguità. Prende la strada della provocazione macabra, di un umorismo nero ed estremo che può ricordare il cinema di Marco Ferreri. Lo sviluppo sorprende, ma il comportamento del figlio diventa talmente paradossale che si può interrompere l’immedesimazione dello spettatore con lui.
I due personaggi principali sono sostenuti da interpretazioni eccellenti per quanto sono sfaccettate e sottili. Il figlio è Edoardo Pesce, la madre Margarita Rosa De Francisco.
Il fillm era stato presentato al Festival di Venezia, alla Sezione Orizzonti, dove aveva vinto il premio per la migliore sceneggiatura e per la migliore interpretazione femminile. Esce nelle sale distribuito da I Wonder Pictures.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 15 giugno 2024
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