Francesco Ferracin
La leonessa
Linea Edizioni, 2024, pp. 650, € 18,00
Davvero una leonessa è Rike, che conosciamo diciassettenne, quando si passava senza problemi da Berlino Est a Berlino Ovest, in un giorno di sciopero nel giugno del ’53, quando nella DDR la folla è inferocita perché sono state aumentate le ore lavorative senza aumento dei salari: la povertà dilaga all’est dove il SED, il Partito Socialista Unificato della Germania, vuole costruire una società senza differenze, mentre dall’ovest arrivano i segni di un benessere in aumento e cresce il numero di chi vi trova rifugio.
Orfana perché la guerra le ha portato via genitori e fratelli, ma di famiglia benestante, vive in campagna con la zia Magda, malata psicosomatica dal passato doloroso e segreto, e si prende cura del nonno paterno, un professore nazionalsocialista a cui Rike deve comunque l’educazione alla cultura e alla bellezza. Friederike crede nel socialismo, come sua madre, risponde al dovere di lavorare per il bene dello Stato secondo le indicazioni del Partito, fa la portalettere, poi è segretaria in una compagnia di assicurazioni, ed ha la volontà di studiare e di conseguire il diploma alla Scuola Superiore di Pedagogia di Postdam.
Con lei conosciamo l’amica fidata Brigitte, che non disdegna di incontrare i soldati americani, e soprattutto Klaus, un meccanico e sedicente pittore, mutevole e violento, che Rike sposa e da cui ha la figlia Mathilde. Un rapporto di amore e odio quello di Rike per Klaus, che scopre “un orco nascosto in quell’uomo dall’aspetto di un angelo”, da cui deve prendere le distanze, per la sicurezza sua e di Mathilde.
Il romanzo, liberamente ispirato ai diari di Christel Onyewenjo Schroder, prende in considerazione l’arco di tempo che va dal 1953 al 1968, di cui segue le novità musicali, letterarie, cinematografiche, le imprese spaziali, le vicende di carattere internazionale, recuperando eventi documentati e personaggi politici, adattati alle esigenze narrative. Se la prima parte si sviluppa nella DDR, fino e oltre l’innalzamento del muro di Berlino nel 1961, con il popolo tedesco che si vede all’improvviso separato da amici e parenti, la seconda parte, la più estesa, quasi un romanzo nel romanzo, ci porta in Nigeria a partire dal 1964, dopo la fine del colonialismo inglese. Questo perché Rike ha conosciuto Alexander, studente universitario marxista appartenente a una potente famiglia nigeriana, fiducioso negli effetti benefici del socialismo anche nel suo Paese. Lo raggiungerà, una volta ottenuta l’esenzione dall’obbligo di lavoro e il permesso di espatrio, anche se le lettere dalla Nigeria non sono arrivate, con sé soltanto l’indirizzo di Alex nella città di Enugu. Con un volo che ha un numero esasperante di scali porta via Mathilde e Christa, nata dal matrimonio con Alex, unica donna bianca a muoversi tra una popolazione nera.
La vita nel paese africano affascina e inquieta: Nigeria dagli usi culturali retrogradi, dei riti tribali e degli sciamani, dalle notevoli differenze sociali ed economiche, paese da cui l’Inghilterra non se n’è mai andata davvero, vista la presenza delle sue compagnie petrolifere e l’interesse per le miniere. Un paese dove Rike non percepisce la stessa libertà di cui lei godeva in Germania, non la riconosce nelle altre donne, non vede il rispetto per i subalterni trattati come servi. Ma la Nigeria le entra nel sangue, con l’harmattan che soffia carico di odori, col mistero della giungla, i colori, il caldo che sale verso la loro villa sulla collina, la conoscenza di uomini di potere che Alex frequenta, i club dove si fanno gli incontri più sorprendenti, come quell’affascinante veneziano che appare spesso, inaspettato e misterioso.
Ci sono altri misteri intorno a Rike, come quel ragazzino, Johnny, da cui il marito non si separa mai. Chi è? E gli intrighi e le trame della politica in cui Alex è coinvolto, da cui la vuole tenere lontana; con la violenza di un golpe militare e l’eliminazione dell’avversario, le divisioni e la guerra tra tribù igbo e hausa-fulani; con le migrazioni di profughi all’interno del Paese e la morte di migliaia di persone. Soprattutto con la proclamazione dello stato indipendente del Biafra di popolazione igbo, con l’embargo, con lo spazio aereo chiuso, abbandonato dal mondo tranne che da De Gaulle, passato alla storia per la drammaticità della situazione sanitaria e alimentare, per un numero di morti calcolati tra settecentomila e un milione. Rike, madre di Mathilde e di tre figli di Alex, attraversa questo inferno - magari ha pranzato addirittura con uomini che si riveleranno assassini - anche lei col terrore che muoia di fame l’ultima nata, di pochi mesi.
Il romanzo di Francesco Ferracin, scrittore veneziano che vive tra Berlino e Venezia, apre su un mondo lontano dalle comuni conoscenze, tuttavia con una ricchezza tale di dettagli e di intrighi politici interni alla Nigeria, che finisce per assomigliare a un giallo e impegna parecchio il lettore; del resto “era grande la rete di interessi tra tanti gruppi di potere, clan, tribù e multinazionali petrolifere”. La figura di Rike, la leonessa, attraversa tutto il romanzo, anche se talora rimane in ombra dietro gli intrighi di potere; l’Africa si mostra con la sua bellezza e le sue piaghe, il colonialismo con i suoi appetiti insaziabili, i pogrom rimandano a quelli che conosciamo anche oggi. Queste vicende, dove verità e finzione letteraria si intrecciano, non sono mai apparse così attuali, a dimostrazione purtroppo che la Storia non ha insegnato niente, che ci sono soltanto interessi economici dietro a ogni guerra: “Il Presidente Ojukwu?” “No. No. Lui è il primo che tornerebbe a trattare. Sono persone fuori della Nigeria. E, soprattutto, persone accecate dal loro fanatismo. E dal denaro”.
Che abbia ragione quell’Edoardo veneziano, misterioso e affascinante? Cioè “che l’essere umano è un errore della creazione”; pur “volendo ammettere che siamo lo sviluppo di un processo evolutivo, a un certo punto c’è stato un corto circuito che ha portato l’essere umano a sviluppare un istinto di autodistruzione”.
Marisa Cecchetti