Tra le tante scelleratezze compiute da Mussolini, quella della guerra alla Russia è forse la più riprovevole perché rileva, ad un tempo, ignoranza assoluta delle forze in campo, fanatico assoggettamento alle decisioni del Führer, assoluto disinteresse per le sorti dei nostri soldati, inviati in territori avversi a combattere – e morire – senza equipaggiamenti adeguati e senza mezzi corazzati per sostenerne l’azione. Hanno scarpe di cartone rinforzato, bende in luogo di calze, divise leggere. E devono combattere in un ambiente che tutti sanno essere piovoso, freddo, spesso gelato. È la storia dell’ottava armata dell’Armir che Mussolini invia a tutti i costi, nonostante il parere contrario di Hitler.
L’armata viene dislocata lungo tutto il tratto del fiume Don. Dopo aspre battaglie nelle quali i nostri soldati ed alpini si battono con coraggio e determinazione, vengono soverchiati su tutto il fronte del fiume. 230.000 soldati italiani sono sbaragliati, in parte uccisi, in parte imprigionati. Inizia, per coloro che sopravvivono, la lunga ritirata di oltre 600 chilometri, a piedi tra ghiaccio, neve, freddo affrontata con indumenti inidonei. Molti non ce la fanno: restano congelati sul terreno. Durante la ritirata, alcuni cercano di aggrapparsi ai camion tedeschi, ma vengono respinti in malo modo dai teutonici. E pensare che gli italiani si sono battuti a lungo per individuare e scavare un corridoio che consenta la ritirata sia agli italiani come ai tedeschi! Alcuni dei nostri soldati vengono salvati dai contadini russi che li accolgono nelle loro case. Tra contadini, come sono molti militari italiani, al di là delle nazionalità, ci s’intende. Diversi si accaseranno in Russia e non torneranno in Italia (vedi il film I girasoli, diretto da Vittorio De Sica ed interpretato da Marcello Mastroianni e Sophia Loren). Dal diario di Galeazzo Ciano, pubblicato da Rizzoli nel 1996, si legge: “28 gennaio 1943. Il duce continua a vedere abbastanza ottimisticamente la situazione in Russia. Crede che i tedeschi abbiano uomini, mezzi, energie per dominare gli eventi e forse per capovolgerli. Non si può dire che le idee del duce siano condivise dal colonnello Battaglini, capo di stato maggiore reduce dalla Russia. Ha fatto un quadro come più scuro non sarebbe stato possibile e, benché fosse la prima volta che parlava con me, ha detto che l’unica via di salvezza per l’Italia, l’esercito e lo stesso regime è quello della pace separata”.
Che dire? Il miglior commento è il silenzio. Montanelli-Cervi, a loro volta, in L’Italia del novecento, edito da Rizzoli per il Corriere della Sera, alla pagina 224 scrivono: “Il Bilancio della battaglia del Don suscita ancora commozione per il sacrificio della truppa, orrore per le condizioni in cui essa visse una ritirata di 600 km, indignazione per l’ostinazione con cui Mussolini e l’Alto Comando, che non riuscivano a sostenere decentemente il peso della guerra negli scacchieri in cui l’Italia era direttamente interessata, vollero andare a farla nelle steppe. Le forze presenti ed operanti all’inizio della battaglia, ha scritto l’Ufficio storico dell’Esercito, ammontavano complessivamente a 229.000 uomini. Detratto da tale cifra il numero dei feriti e dei combattenti rimpatriati, pari a 29.690, restano 199.310 combattenti. Alla conclusione della battaglia mancavano all’appello 84.830 uomini. I superstiti furono dunque 114.485. L’URSS ha restituito 10.030 prigionieri. Il numero dei combattenti dell’ottava armata che non sono tornati in Italia dal fronte russo ammonta pertanto a 74.800. Nessuno, né da parte italiana né da parte sovietica, ha potuto indicare quale fosse, in questa cifra, il numero dei morti e il numero dei dispersi”. Anche su queste parole ogni commento appare superfluo.
Sergio Caivano