Di solito, quando in una recensione cinematografica si evoca la categoria del “fumetto”, si intende denunciare una certa grossolanità dell’intreccio e della descrizione dei personaggi. Può esserci però almeno un aspetto positivo in quella stessa categoria: la capacità di disegnare un personaggio o un ambiente attraverso un’immagine, tanto che già al primo colpo d’occhio possiamo coglierne i tratti essenziali.
Così, per esempio, in Adagio, un film diretto da Stefano Sollima, che “flirta” apertamente con il linguaggio del fumetto, quando vediamo il corpo nudo, bagnato di sudore, disteso su un letto, di un uomo maturo, completamente glabro e calvo, che può farci pensare a un enorme geco, riceviamo subito l’impressione di un animale sofferente, che cerca come un conforto tenendosi ai margini e nella penombra.
Mentre un anziano, in apparenza del tutto svanito, ma il cui volto si anima poi di una smorfia strafottente, perfino feroce, ci dà l’impressione di un pericoloso “finto tonto”.
E un ragazzo di periferia, ricoperto di abiti alla moda, intorno alla testa due grandi cuffie, dagli occhi luminosi e ingenui, ci dà l’impressione di chi, malgrado un certo conformismo giovanile, mantiene una riserva di freschezza e di innocenza.
Sono tre dei personaggi principali della vicenda raccontata dal film, a cui bisogna aggiungerne almeno un quarto, presentato nello stesso stile icastico o appunto “fumettistico”: e cioè Roma, una Roma non realistica, di ascendenza vagamente felliniana (e si sa quanto Fellini amasse le vignette!), su cui incombono i flagelli del caldo torrido, dei black-out, di fumi di incendi, di ingorghi interminabili. Sono mali che materializzano in effetti una corruzione morale, intesa qui soprattutto come criminalità diffusa, quasi onnipervasiva. E la lotta tra quella corruzione, la rete di complicità e di omertà che la nutre, e una difesa quasi disperata dell’innocenza, è il tema di fondo del film.
Certo, il limite del racconto, che vuole essere un racconto popolare, è la semplificazione dei temi e dei personaggi.
Va detto però che, a differenza che in tanti racconti popolari, dove spesso le situazioni e l’azione sono rese da subito didatticamente chiare, il film di Sollima si segue come muovendosi a tentoni in un ambiente buio: nel senso che gli intenti dei personaggi, gli stessi problemi che devono affrontare, non sono chiariti in partenza, ma si definiscono progressivamente attraverso lo sviluppo del racconto. Di qui un’enigmaticità che tiene sempre viva l’attenzione dello spettatore.
E poi, per un film italiano, presenta un aspetto originale, quasi audace: la corruzione e la criminalità qui contagiano anche le forze dell’ordine. Se il valore della legalità è comunque difeso nel finale, si assiste alla scena paradossale in cui dei carabinieri intimano a un ragazzo di fermarsi ma noi comprendiamo che questi, per salvarsi da loro, deve invece fuggire.
Si tratta di un film molto ben recitato: ad attori di consolidato valore come Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Adriano Giannini, Valerio Mastandrea e Francesco Di Leva, si affianca un efficace esordiente, nel ruolo dell’adolescente protagonista, che si chiama Gianmarco Franchini.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 6 gennaio 2024
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