La poesia, come più alta espressione dell'essere umano, rifiuta con tutta se stessa la degradazione di noi stessi e di ciò che ci circonda
Ho letto con molto appassionato interesse questo libro di Silvia Rosa, che nasce dal contrasto tra il progresso e i bisogni più profondi e ancestrali dell’essere umano.
Si potrebbe definire la sua, una poesia distante dalla mistificazione e dalla fascinazione della tecnologia del progresso che frastorna, allontana e schiaccia l'io, deformandolo, disorientandolo e rendendolo funzionale al sistema. Vi serpeggia l’alone realistico e spettrale, a volte, del Covid, della tecnologia, dell’inquinamento, della città (la città, tra l’altro dà anche il titolo ad una delle sezioni del libro). Una città che vive nel suo torbido humus, percorsa, attraversata e osservata come fosse un alieno, con cui dover fare i conti giorno dopo giorno.
Si tratta di tematiche che Silvia Rosa in questa raccolta sente come pressanti e urgenti. Siamo circondati da oggetti e situazioni che l’autrice fa entrare nella sua poesia con forza e talvolta con moti di rabbia pungente: i byte, i monitor, google, i social le strade di alluminio, le muraglie marziane, un inferno di eternit e plastica, i tunnel sotterranei, le fogne, il fumo, i virus. Silvia Rosa non resta incantata dalla “magia” del progresso, sa che “manca di profondità questo andare” di “uno sguardo d’insieme”, sa che questo “tutto” non è ciò che basta a costruire la felicità e che non può essere il senso del nostro esistere.
L’utilizzo del linguaggio della scienza e della tecnica che abbiamo così tanto assimilato e assorbito, da utilizzare quotidianamente e metaforicamente per i nostri bisogni, diventa emblematico in tutta la sezione “In caso di necessità rompere il vetro” (quella che ritengo più accorata e per questo la più pungente e sarcastica, da cui emerge tutta la nostra tragica esistenza).
C’è in questi versi, quasi come un urlo, l’attacco alla modernità, ma anche all’individualismo; alla mancanza di identità, di originalità, di vicinanza autentica. Viviamo, scrive l’autrice, come se la vita fosse tutta in uno schermo e si faticasse a respirare “aria di nuvole”.
Di rimando, nei suoi versi emerge il “bisogno di raccontarci/ di un’epoca in cui aveva ancora senso toccarsi”, ascoltare “la terra che ci resta”, chiedersi “dove vanno le cose che ci illuminano”, “di sopravvivere alle lesioni del buio”, laddove resiste ancora, scossi dal rumore della fretta e dalla precarietà, un “riparo”.
Eppure leggendo questi versi si ha la sensazione, talvolta, che si sia già troppo in là, che il tempo del disincanto abbia allungato i tentacoli con orrore su tutto, così come l’abitudine, “la progressione del grigio è compiuta”. Resta ancora la grazia e il valore etico e umanistico della poesia che, nella denuncia, ha in sé il potere salvifico della speranza e della luce che vibra e trema “all’estremità della notte”, nel “volo di un passero che sfida / le discromie della sorte”, nelle domande senza risposta ‘Come?’/ ‘Dove?’ (tantissime volte ripetute). Si tratta di versi dagli estremi interrogativi, che in questo frangente storico acquisiscono forza drammatica, provocazione e messa in discussione, facendosi portavoce di un sentire corale collettivo “Forse sopravviveremo”, “Forse ci risveglieremo da un sonno di confine”.
Abbiamo fatto una magia – guarda –
rimestato ogni angolo affinché rilucesse
come una moneta di platino
e poi abbiamo preso il cielo
con la punta delle nostre lingue
l’abbiamo lavorato in una scala di grigi
senza più toni caldi e orientamento
così adesso luccicano i nostri passi falsi
sotto il plumbeo che ci schianta,
privi di olfatto per non imbattere nell’odore
di sterco e di tana, bidimensionali e nitidi
ci duplichiamo a latere dell’immagine,
in un’asettica anestesia cromatica, dentro
una cuspide d’ombra, nuova di zecca
(Silvia Rosa, da Tutta la terra che ci resta)
Maria Pina Ciancio
Silvia Rosa, Tutta la terra che ci resta
Prefazione di Elio Grasso
Vydia editore, 2022, pp. 84, € 12,00