I
Fossato e torri, vigilano il confine lungo
[il Reno
Germanico Giulio Cesare e le sue
[otto legioni.
Nel cuore del castro la sposa Agrippina e il terzogenito Gaio.
Tenera carne stretta nel cuoio delle caligae.
Impugna spade e pugnali la mano di un bimbo, chiamato Caligola,
formato dalle milizie e dal colto Zaleucos.
Si scioglie la neve sui valichi alpini.
È tempo di partire per Roma.
Gesta sanguinose e prodi infiammano giovani vene.
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Splendore di marmi fra colli e rivi.
Potenza imperiale sovrasta imponente
intrecci di corte, aggrovigliate vendette.
Effigie guerresca il Trionfo.
Cospirazioni silenti inquietano il sole di Roma:
Il popolo osanna. E chi teme allontana.
Il condottiero inviato sulle coste d’Oriente.
Con sé Agrippina e i tre figli maschi.
Valorosa missione cela torbidi intenti.
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Caligola conosce la navigazione per mare,
le ammonizioni del padre: “attento a chi vedi ogni giorno”,
la dea della Vittoria.
Lungo andare per mitici siti, già storia
quando sul Colle s’alzavano capanne di paglia
e dai porti di Mileto partivano convogli per l’Egitto.
Il generale valente e accorto,
erede di Augusto e di Marco Antonio,
mira a fondere la potenza di Roma con le culture d’Oriente.
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Non trova Germanico la terra ambita
ma villaggi incendiati e rovine,
resti della rivolta egizia domata.
Stele di pietra affiorante.
Sais, custode di segni oscuri,
tempio chiuso nella muraglia.
Vegliardo officiante vestito di bianco,
il cranio rasato, ultimo adepto vivente
della folta schiera prima del giogo romano.
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Il sacerdote in greco fluente
introduce alla lingua sacra,
alle perpetue icone scolpite nella pietra.
Caligola, avvinto dalla visione del padre,
serra idealmente le foreste del nord
e il tempio nel deserto, sotto l’imperio dell’Urbe.
Dea Madre e la notte del Grande Rito,
il trapasso dell’uomo dalla corporeità allo Spirito,
s’imprimono nella giovane mente.
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Fiori, profumi e spighe
cori adolescenti e armonie, cesta d’oro
traboccante dell’Essenza eccelsa.
Lucerne e fiaccole, sacre imbarcazioni,
Iside, Porta Aurea dell’Immateriale,
intelletto che racchiude ogni arte e talento.
Specchio di Diana, bocca di vulcano
che nessun fiume alimenta e le cui acque mai calano,
ai piedi di Alba il lago Nemorense.
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Caligula apprende a frammenti
dolorose e mortali vicende
legate alla storia della sua dinastia, Giulio Claudia.
Severo monito le parole del padre:
“Guardati da chi entra nelle tue stanze
e da anni ti odia e ti sorride”.
L’ira imperiale sospesa sul capo di Germanico,
reo di aver aperto i granai in Alessandria
e di aspirare a soluzioni di pace.
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Roma invia messaggeri e segnali di morte.
I veleni di fattura siriana non lasciano tracce.
Caligola osteggia la fine, aggrappato allo spirito del padre.
Il corpo nudo esposto su una pira grandiosa
e mentre arde si leva l’accusa di omicidio regale.
Scaduto il tempo breve dell’auspicata concordia.
Fastoso ingresso in Roma. Agrippina depone l’urna
al mausoleo di Augusto, dove prima dello sposo
ha già accompagnato i suoi tre fratelli uccisi.
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Caligola assiste e pone domande. Si svelano i segreti
della famiglia imperiale in disgrazia,
della sorella Giulia Livilla relegata nell’isola di Pandataria.
Le arti della Noverca, madre di Tiberio, trame di ferro
a ordire e disfare opportuni grovigli.
Il sangue ribolle di mescolanze insolubili.
Frutti di un ceppo degenere
appesi al filo di cupe strategie,
passano ai posteri le ambizioni dei padri.
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Processi segreti, accuse e iniquità
corrodono l’adolescenza di Caligola
alla mercé di spietate ritorsioni;
astutamente progetta la salvezza:
muta lo sguardo fiero in quello dell’agnello,
docile preda disarmata e innocua.
Nessuna presa offre agli inquisitori.
Isolato nella torre del sapere scandaglia i trascorsi
e la tenebra che proietta minacciosa sul futuro.
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Trista la tirannia che forma i vili.
Castra Praetoria imprigiona la città.
Sfugge al boia chi si dà la morte.
Tiberio dominante dallo scoglio,
usurpatore preso nel suo stesso inganno,
poggia le spalle al dirupo levigato.
Dispersi gli eredi naturali
d’una discendenza segnata dalla strage,
scampa Caligola simulando stoltezza.
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S’adegua infido sbaragliando intenti,
penoso s’impone il tempo dell’attesa,
la mente ricorda, incita: Sustine. Sopporta.
Al Colle Palatino veglia malevola l’Augusta
sul suo sangue temuto. Confinato in una stanza angusta
sui Libri Sibillini apprende Caligula i destini di Roma.
Studia la Forma Imperii disegnata da Vipsiano Agrippa
su ordine di Augusto, corpo immane superbo palpitante di arterie
esteso su terre remote, esaltante dissimulata evasione.
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La maschera si salda alla sua pelle,
Caligola finge idiozia e assenze
e nessun moto del corpo ne rivela i fremiti.
Giustiziata dal tempo Giulia Augusta,
nella domus di Antonia, ava paterna,
trova Caligola conforto a furori e angosce.
Cadono i consanguinei sotto la spietatezza di Tiberio,
monta l’ira contro l’usurpatore, e il solo successore
cova una certezza: “Non mi uccideranno”.
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Nel tempio domestico Iside, Grande Madre,
unica effige rimasta in tutta Roma
della divinità dagli infiniti nomi.
Va il pensiero sbrigliato al battello che risale il Nilo,
a Germanico posseduto da una visione immensa,
allo specchio d’acqua tra i Colli, al tempio di Giove sulla vetta.
Da Capri a Roma si ordiscono complotti,
galoppano i messi consegnando morte,
sicari e boia eseguono condanne senza appello.
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L’imperatore chiama a sé Caligola,
vent’anni e nello sguardo vacuo ignoto fato,
la rupe di Tiberio incombe tetra.
A Villa Jovis Gaio si rinserra
e nella polvere della biblioteca
consulta opere di magia, musica e scienze.
Fra i classici greci e rari papiri
trova i Libri Pontificum con le formule occulte
pronunciate da iniziati e duci per impetrare vittoria.
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Senza mai svelare interessi e scoperte
né odio e afflizione e rivalse,
scruta dell’avverso le pieghe nascoste.
La famiglia annientata e non pianta,
frenata ogni emozione Caligula oppone resistenza,
aggrappato alle parole del padre: “Avrai tempo”.
Sciocco e infantile o scaltro
si finge strumento per turpi strategie,
per lui si decidono vantaggiose nozze.
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L’unione non porta l’erede imperiale
ma morte per la sposa fanciulla,
e furore dell’usurpatore per il fallito fine.
Senza più polso e ambizioni, Tiberio
annebbia residue aspettative
fra le braccia di accoglienti giovinetti.
Caligola confida: l’impero è suo,
di diritto e di sangue, e assiste paziente
alla inesorabile disfatta del tiranno.
II
Tiberio, lasciata l’isola, muore in viaggio per Roma
e Gajus Julius Caesar Germanicus,
ultimo della stirpe, viene acclamato imperatore.
Sorprende il testamento di Tiberio,
che in un delirante anelito d’impossibile intesa
dichiara eredi congiunti i suoi nipoti Gaio Cesare e Tiberio Gemello.
Duumvirato di transizione, per i favorevoli,
mentre fra il popolo sale lo scontento:
non si accetta al governo un altro sanguinario.
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L’incalcolabile patrimonio di Augusto,
frutto delle ricchezze confiscate a Marco Antonio e fautori,
inesauribili redditi della provincia romana d’Egitto;
ricchezze impinguate dalle proprietà di Giulia,
dai beni dei condannati per lesa maestà, dalle confische
subite da Agrippina e figli, e dal patrimonio di Germanico.
Si contesta la legittimità del testamento,
c’è chi attesta sia stato redatto in condizioni d’incapacità,
e su istanza d’un senatore influente il lascito viene invalidato.
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Eletto imperatore, principe e signore,
Caligola si mostra desideroso di pace e generoso,
conquistando la piazza e i pretoriani.
Elargisce equa ricompensa a fedeltà e impegno,
raddoppia il premio pattuito,
dispensa donazioni a ogni legionario meritevole;
ordina la sospensione di tutte le condanne,
la riesamina delle sentenze, e che tutti ne siano informati
per non patire ancora angosciose attese.
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Parte Caligola, in cerca di memorie,
per Pandataria. E in una nicchia rinviene
l’urna con le ceneri di Agrippina, in abbandono.
Si reca sull’isola di Pontia
e recupera le ceneri di suo fratello Nero.
Risale navigando lento, perché dilaghi la notizia.
Lo accompagna la folla commossa al mausoleo di Augusto.
Del fratello Druso, lasciato morire nel carcere del Palatino,
nulla trova da deporre.
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Rinvenuto un archivio di documenti segreti,
trema la Curia. Ma Caligola respinge il passato,
teso verso innovativi mutamenti.
Guarda avanti, oltre archi trionfali e parate militari.
Abolisce ricorrenze sanguinarie,
ristabilisce libere votazioni, favorisce le classi più ingenti.
Affranca le sorelle da nozze combinate
e se stesso da parentele offensive.
Tutto sovvertito, si mormora fra timore ed esultanza.
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Arrivano i giorni degli intrighi:
rimossa la finzione dell’inesperienza,
l’imperatore si rivela abile e pronto.
Contrastato dai senatori, dal popolo innalzato.
Non si sottrae come Tiberio rifugiandosi altrove:
resta a Roma, consapevole bersaglio.
Matura nella mente propositi
arditi e smisurati.
S’abbandona ai sogni, rafforza ideali.
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Estimatore delle raffinatezze d’Oriente
s’ammanta di pregiati tessuti e accessori sontuosi,
fatti giungere dai confini del mondo.
Condotte libertarie diventano costume
creando dissidio fra generazioni,
cadono le proibizioni emanate da Augusto.
Insonnia e brame martellano i suoi giorni
consensi e tripudi esaltano miraggi,
Caligola incorona se stesso, animoso e solo.
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Dalla tribuna al Circo Massimo
scorge la residenza materna, ricorda l’ultima notte
passata con Agrippina maggiore.
In quei giardini vede sorgere possente l’obelisco
e una seconda arena ai piedi del colle Vaticano
e un ponte a quattro arcate connesso ai recessi dell’Impero.
Tanto occorre per stornare vuoti e brame,
triste memoria di un’adolescenza aspra,
sofferti abbandoni senza ritorno.
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Cambia il volto della Roma austera.
Affluiscono schiavi dalle terre conquistate,
massiccia l’invasione degli egizi.
Nelle sue notti tormentate, nei ricercati silenzi,
l’Augusto soggiace al suo stesso potere,
nulla può lo stuolo di cortigiani per distrarlo.
Relegato a Capri aveva esaminato le strutture
tracciate da Vitruvio nel De architectura
e gli affascinanti dettami per l’acustica.
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E sul lato del Palatino dominante il complesso dei Fori
sorge, sotto la direzione di Manlio il ‘veliterno’,
un’aula estrosa dedicata alla musica, ai mimi, alla danza.
Caligola ridisegna Roma. Nuovi maestosi palazzi
e la sua dimora con un accesso imponente
e la volta dell’atrio sostenuta da possenti colonne.
E nei giardini che furono di Marco Antonio,
in cui il sacrario isiaco era stato più volte devastato,
si eleva la Cultura, ‘il centro del pensiero nuovo’.
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Nella Domus Gaj una copia murata della Forma Imperii,
confini conquistati in espansione,
le terre costate la vita a Germanico suo padre.
Su quella visione scolpita nella pietra
formula Caligula assetti nuovi:
un insieme di stati federali, autonomi e concordi.
Troppo incalzante corre rispetto ai tempi,
sconvolge la sua rotta poteri conclamati.
L’imperatore è solo, coi suoi fantasmi.
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Brucia le notti fra braccia sconosciute e laide.
Drusilla, sorella amata, delizia che sfocia nel dolore.
Oh tenerezza che non trovi strada!
Vivo il ricordo di un viaggio,
il tempio di Sais e il lago sacro chiuso tra le selve
e lo sprofondo al centro senza foce.
Il leggendario lago Nemorensis consacrato a Diana,
già prescelto da Cesare al tempo dell’amore per Cleopatra,
scenario che riporta alla memoria da onorare.
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La nave vista marcire in Alessandria, nave sacra,
modello d’un fastoso tempio marmoreo sull’acqua,
adorno di ori sculture simboli e colonne;
e un’altra imbarcazione, con vele e remi, destinata a genti
d’ogni provenienza, volontà di pace e d’accoglienza
trasmesso da Germanico a suo figlio.
Il rito accompagnato da strumenti giunti dall’Egitto,
ancora sconosciuti in Roma:
arpe, liuto, flauto diritto semplice e doppio e traverso.
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E mentre le lampade arderanno, e si mescerà vino speziato
e bruceranno incensi, lo spirito passerà oltre la Morte
nutrito di profumi, suoni, preghiere e fulgore.
Colto da misteriosa febbre, delirante, Caligola
si stringe a Giulia Drusilla, sorella amante,
suo stesso sangue, acquiescente complice.
Voci si spargono in Roma, scandalose licenze rievocate,
congetture avverse all’imperatore dalla mente confusa,
perso nel labirinto sempre più aberrante.
III
Insidiose trame s’intessono a danno del regnante,
diffidente e cupo. Anche la nonna Antonia lo abbandona,
ponendo fine alla sua lunga travagliata vita.
Lo attrae Livia Orestilla, sposa di Calpurnio Pisone,
erede di una stirpe che da sempre ambisce all’impero.
Essa non lo respinge ma lo sprona e volente lo segue.
Si apre una partita mortale e dichiarata.
Calpurnio Pisone, Giunio Silano e Sertorio Macro coalizzati,
con il console Gemino vengono accusati di complotto.
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La spietatezza dell’Augusto esplode incontenibile,
vendetta o giustizia si abbatte sui rei
il terrore dilaga e l’odio divampa.
Una donna, ancora una donna a tenergli la fronte.
Lollia Paolina, costretta al divorzio per sposarlo,
sua terza consorte, imperatrice per un solo anno.
Nessun discendente ne raccoglie il nome,
addosso molossi ringhianti
e solo dal popolo opportunistici consensi.
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Documenti rinvenuti in una stanza murata
riportano alla luce il passato,
la lunga persecuzione subita dalla famiglia imperiale.
Roma deve sapere. E nel fare giustizia
Caligola supera in efferatezza i feroci traditori,
cui infligge inenarrabili pene.
Restaura la Lex Varia De Majestate
introdotta e poi abolita con clamore da Tiberio,
per chi, ope et consilio, da alleato si fosse posto da nemico.
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Nessuno del suo sangue che gli succeda, e le sorelle
in guerra per diritti dinastici. Caligola, solo e isolato,
si aggrappa a effimeri affetti e utopie fallaci.
Incontra lo sguardo di Milonia Cesonia
e all’istante decide di volerla accanto.
Sul lago Nemorense la stupisce con le sue navi d’oro.
Si sussurra degli oscuri riti
che una profetessa compie sull’imperatore
per renderlo invincibile e immortale.
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Plenilunio di marzo. Un corteo di genti straniere
procede su un tappeto floreale con lampade e musiche,
e l’imperatore in fogge strambe chiede auspici alla luna.
È quanto si narra delle cerimonie notturne
e dell’incrollabile sogno di armonia
che si vorrebbe sposare con la gloria.
Scorre il sangue a torrenti. Fra i traditori Lepido
giustiziato con altri tribuni, e Drusilla sua sposa
confinata su un’isola. Intrigati legami, tragedie già vissute.
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Abissi di ferocia generano atrocità indicibili.
Nei processi notturni romba di urla la città.
Caligola smorza parossismi fra le braccia di Milonia.
Molteplici e tenaci gli infedeli come le teste dell’Idra.
Il potere una belva acquattata pronta allo scatto,
accerchiato di serpi esecrabili e vili.
Visione d’una cella d’oro sotterranea,
luce soffusa e fragranze e presenze amate,
ricordo o sogno d’un tempo originario da reinventare.
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L’odio, malerba che si nutre di se stessa
e con accanimento si distrugge:
pace sui confini e tra la cinta forsennati scontri.
Il popolo che l’ama, sola difesa dell’imperatore.
Ha troppo osato, il senato non perdona.
Oltraggiosa l’ultima sua celia: nominare il suo cavallo senatore.
Sdegno fra i nobili padri, e mirate congetture:
l’imperatore è pazzo, tutto così si spiega:
il vaneggiare febbrile, l’insonnia, le scombinate gesta.
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Si architetta la cospirazione, ultimi dì di novembre.
E all’assassinio seguirà la damnatio memoriae,
a condanna della dissolutezza incestuosa dell’imperatore.
Cancellare d’un colpo e in perpetuo le sue opere eccelse:
nome iscrizioni statue, la sua domus, l’aula delle musiche,
il cryptoporticus, il tempio isiaco, il suo primo murato discorso;
incendiare biblioteche e abbozzi maniacali,
affondare le stregate navi nel lago Nemorense,
prova d’inconfutabile oltraggio alla ragione.
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Il potere un cappio soffocante,
tigre bramosa sempre più aggressiva,
e dentro cresce la risposta atroce come croce che inchioda.
Giace l’idea di pace in qualche luogo,
sterminato è il buio che l’inghiotte,
e la fiera cruenta s’avventa mirando al cuore.
Attende il suo erede con crescente smania.
Sarà maschio, dicono gli astrologi,
ma il suo nome non ancora scritto.
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Eterne le notti senza tregua, senza riposo.
Si scioglie l’imperatore dall’abbraccio di Milonia
e va a scontrarsi con l’oscurità densa d’insidie.
Attratto da luci e suoni e sensuali movenze
in ambienti traviati, schiavo fra gli schiavi,
sedotto dalle sue stesse passioni.
Nasce la sua erede, nominata Giulia Drusilla
come la sorella che nel sogno gli parla più che da viva,
ma non ha mani di carne per cingergli la fronte.
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Si stringe il cerchio attorno all’infelice folle
che ha fatto addobbare il suo cavallo con blasonate insegne,
spregio o arte d’affossare nel ridicolo il nemico.
Occorre agire, i congiurati sanno che l’imperatore è solo.
Assiste a spettacoli di danzatori e mimi, soffre, incurvato,
per il dolore lancinante al petto, che mai l’abbandona.
Vuole uscire, balla la luce delle fiaccole
al suo sguardo velato, la mente annebbiata e torpida,
lo circondano le guardie germaniche mentre s’avvia.
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Sui loro passi i congiurati, pronti all’azione.
Ma ecco che l’imperatore si volge indietro,
desidera omaggiare gli artisti venuti da lontano.
Ordina alla scorta di attenderlo fuori
e devia verso il criptoportico,
lunga galleria con la mappa in pietra dell’Impero.
Passi alle spalle: è Cherea, a lui fedelissimo.
L’imperatore prosegue rincuorato senza più voltarsi.
Accelerano i passi e d’improvviso il balzo.
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Affonda il coltello nella schiena, freddo e indolore,
si volge l’imperatore e schiva un altro colpo,
forte ancora, e giovane, addestrato alla schermaglia.
In fondo al portico l’aspetta la salvezza.
Lotta per farsi strada,
cala ancora la lama ma lo manca.
Respinge con forza il sicario,
corre verso l’uscita: una guardia accorre in sua difesa,
pensa l’imperatore, ma si sbaglia.
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Preso tra due fuochi si piega sotto i colpi, flette le ginocchia,
si abbatte al suolo, non è il freddo di gennaio a trafiggerlo,
e l’urlo di Milonia è lampo rosso che serpeggia.
Quali mani stringono il suo capo, quale sangue
si mischia al suo, chi soffoca parole d’impetuoso amore
con un colpo affilato di pugnale?
E c’è chi corre a spezzare l’ultimo legame con la vita,
togliendo vita a una bimba chiamata Drusilla.
Così finisce il regno breve di Caligula, terzo imperatore di Roma.
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Sul Campidoglio si schierano le coorti
a protezione del nuovo potere:
parola d’ordine ‘Libertas’.
Placata l’ira della popolazione con abile manovra,
insistendo sugli stolidi sprechi di Caligola
e la promessa di più miti tasse.
La pira funebre approntata nei giardini Vaticani
riduce in cenere prospettive e intenti,
ogni memoria cancellata pure dalle pietre.
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Sulle acque immote al bosco sacro
ancora un sacrificio all’adirata Diana,
nel cui tempio si perpetua il rituale della morte del padre.
Maria Lanciotti
(Poemetto ispirato al Caligula di Maria Grazia Siliato, Mondadori 2005, pp. 487)