A lettura ultimata della silloge poetica di Fabio Dainotti rimane la consapevolezza di essere stati trascinati indietro di una sessantina d’anni e di avere viaggiato dalle brume del nord padano alla luce del nostro sud. E di avere ascoltato/letto una lunga canzone al ritmo di endecasillabi e ottonari. Talvolta si tratta di prosa poetica o di versi liberi, ma quel ritmo resta prevalente e ci accompagna.
Persone di famiglia, amici, conoscenti, e soprattutto figure femminili legate alla giovinezza, prendono vita in angoli di paese, corti, marine; si muovono dentro interni dove si ripetono i riti della condivisione e dell’accoglienza: “Con uno spicchio giallo di limone / portava il the tua madre verso sera / mater mediterranea, e lungamente / s’incantava a guardarci bere quella / calda bevanda e agra dolcemente”.
Sono figure leggere tante giovani donne che risvegliano l’amore, fissate in un gesto, un colore; può essere anche una bambina che danza lieve “su scarpine collegiali”, o la bimba dalla veste di seta azzurra, che “gioca / sul ghiaino celeste tra le aiuole” - chiaro il riferimento a Saba.
La donna è sempre portatrice di luce: “Dove tu sei è giorno chiaro, mentre / da noi fa scuro; eppure / non abiti agli antipodi”. Può essere anche la nonna tanto amata, che se ne va e porta via la giovinezza di lui, “in pratica, gran parte della vita”. Quello che si fissa in queste liriche è la bellezza di ogni istante, di ogni incontro, di ogni persona, immagini che il ricordo dilata e riveste di nostalgia. I personaggi si muovono talvolta come al rallentatore sulla scena di un film in bianco e nero.
Ma perché “L’albergo dei morti”? Perché è breve l’arco della vita, “un’ombra affilata” ci spia, in agguato, e il domani è “una carta di tarocchi”. Impossibile il recupero di ciò che è stato. Perché vita e morte vanno a braccetto ed eros non è disgiunto da tanatos: “Si baciano neppure castamente / lungo i muri del cimitero / gli amanti in vetture milionarie”: all’occhio che scruta e legge la realtà non manca il sorriso e un filo di ironia.
Prima di noi sono tutti morti, dicono i versi di Dainotti, la morte è la livella a cui nessuno sfugge: “Io vivo, tu muori / e i morti laggiù mormorano / anch’egli muore”. E ancora: “lo sapevo che sarebbe morto / che morirai, che moriremo tutti”. La pioggia onnipresente in questa raccolta diventa il pianto del cielo sulla finitezza dell’uomo. Per questo bisogna valorizzare la vita, fermarsi ad ascoltare, sentire che esistiamo, e non sprecare i ricordi: l’immaginazione ricostruisce le scene del passato e riporta gli assenti, li sottrae alla morte.
Nei versi di Dainotti scopriamo frequenti prestiti letterari: le giornate nello studiolo insieme al cane mentre “fuori, la vita celebra / i suoi trionfi”, sono un chiaro rimando a Leopardi, così come “Quali fiabe e chimere, quali sogni / ti han fatto compagnia?”, evoca Silvia; gli interni con le loro piccole cose hanno sapore gozzaniano; il battello ebbro è di Rimbaud; “piove / come mercoledì, come a Cesena” è un prestito da Marino Moretti; di sapore catulliano è il verso riferito alla donna di un altro: “beato lui, è simile agli dei”. E tanti ancora. Non mancano Dante e Alain Fournier, lettura giovanile dell’autore condivisa con un amico, quando, come scrive nella postfazione Nicola Miglino, “i due ragazzi si identificarono nei personaggi di quel breve grande romanzo, nel quale Alain Fournier racchiuse tutti i sogni, le visioni, i disincanti dell’adolescenza”. I prestiti, incastonati con estrema naturalezza, spesso offerti con parole proprie, sorprendono chi legge, chiedono di fermarsi.
Non rimane tempo per i sogni e le visioni: scomparse ormai le persone con cui furono condivise esperienze ed emozioni, il percorso alle spalle è l’invisibile che ci appartiene e che ci conferma che abbiamo vissuto, sofferto e amato. Allora non fa paura il pensiero che il tempo davanti a noi si fa sempre più breve: è quel “poco che mi resta della vita. / E sogno di partire e non tornare”.
Marisa Cecchetti
Fabio Dainotti, L’albergo dei morti
Manni, 2023, pp. 176, € 18,00