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Gianfranco Cercone. “Killers of the Flower Moon” di Martin Scorsese
07 Novembre 2023
 

In certe interviste a registi cinematografici, alla richiesta dell’intervistatore di chiarire i significati del loro film, capita a volte di leggere come risposta che se quegli autori fossero stati in grado di descrivere a parole quei significati, non avrebbero realizzato il loro film. Il discorso delle immagini, il racconto cinematografico, sarebbe insomma più sottile, più ambiguo, più misterioso, di un discorso logico che pretenda di interpretarlo. Non è, a mio parere, un principio che vale sempre. In tanti film i significati sono fin troppo espliciti e facilmente interpretabili. Ma certo quando un film raggiunge la qualità della poesia, l’interpretazione diventa più ardua. E si può restare convinti, perfino incantati, dalle immagini senza comprenderne pienamente il significato.

L’ultimo film di Martin Scorsese, dal titolo Killers of the Flower Moon", tratto da un libro-inchiesta di David Grann, è un film che ha l’ampia dimensione di un affresco. È ambientato negli anni Venti, in una regione dell’Oklahoma riservata agli Indiani, dove gli Indiani scoprirono il petrolio, si arricchirono, e furono per questo detestati, truffati e uccisi dai Bianchi.

Nell’affresco spiccano le figure di tre personaggi. La prima è di un Bianco, ormai anziano, benestante, che ama presentarsi come un benefattore degli Indiani, ma che in effetti trama in segreto per impadronirsi delle loro ricchezze, a costo di compiere i crimini più nefandi. Non è dato di scorgere in lui un’ombra di scupoli morali o di rimorso. La corruzione è ormai in lui inveterata, così come è perfetta la sua ipocrisia. Ma il suo sorriso che vorrebbe essere benevolo ed è invece arcigno, rivela il suo carattere intimo. (Si tratta quasi di una maschera, magistralmente interpretata da Robert De Niro).

La seconda figura è quella di un Bianco più giovane, nipote del primo, reduce dalla Prima Guerra Mondiale, il cui carattere, capiamo subito, è fragile, e lo rende disorientato. È capace di impulsi buoni, come l’amore o la compassione per gli altri, ma essi non “attecchiscono” nel suo comportamento, perché subisce poi l’influenza contraria, negativa e per lui irresistibile, dello zio. E se talvolta è colto dall’orrore per i crimini che dallo zio è convinto a perpetrare, quell’orrore non diventa mai una decisa ripulsa, e alla fine si abbandona al Male.

(Questo secondo personaggio è interpretato con altrettanta bravura da Leonardo Di Caprio.)

Entrambe le figure non lasciano in effetti grandi residui di mistero agli occhi dello spettatore, perché di entrambi ci sembra di cogliere a pieno le principali motivazioni: l’avidità, unita al razzismo, nel caso dello zio; la soggezione psicologica nel caso del nipote. Per questo, anche se ammirevolmente definiti, sembrano più tipi che individuo, proprio perché il loro carattere è semplificato, ridotto quasi a un meccanismo, sia pure sofisticato.

È il terzo personaggio invece il più misterioso, quello più difficilmente interpretabile, e che costituisce, a mio parere, l’anima del film.

Si tratta di una donna indiana, di cui il giovane bianco si innamora, ricambiato, e che finisce per sposare. (La interpreta, molto bene, Lyly Gladstone).

Non si tratta di una donna che, innamorata, idealizza il marito. Dai suoi sguardi, da certe parole che scambia con le amiche nella sua lingua nativa, capiamo che non si fa troppe illusioni su quell’uomo, sa che lui mira anche ai suoi soldi. Ma appunto: anche. Allo stesso tempo coglie quanto di positivo è in lui.

E via via che il marito si corrompe, tanto da minare deliberatamente la salute della moglie, la fiducia che lei quasi si impone di continuare a nutrire per lui, pur dubitando palesemente della sua onestà, quella fiducia, più che masochistica, ha forse il valore di una provocazione morale. Come a dire: potrà ancora quell’uomo avere la sfrontatezza, la viltà, di compiere il male, pur vedendosi ricambiato dalla fiducia e dell’amore?

Come ho anticipato, il film di Scorsese è un affresco, all’interno del quale tante sono le figure secondarie intagliate a perfezione. Ma la qualità del film che qui più mi preme evidenziare, è la sua difesa, che assume la forza di un manifesto, per un cinema antropomorfico, che metta al centro, anziché gli effetti speciali e la vuota spettacolarità, i sentimenti, i problemi morali e i comportamenti dell’individuo.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 28 ottobre 2023
»»
QUI la scheda audio)


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