L’idealizzazione di un mondo, o di un periodo storico, anche se dettata da una sincera ammirazione o da una vera nostalgia, può essere a volte un impedimento a una descrizione realistica di quel mondo o di quel periodo storico, perché può indurre a esasperare i loro lati positivi.
La regista marocchina Maryam Touzani, pur ambientando il suo ultimo film dal titolo Il caftano blu, in una città del Marocco ai giorni d’oggi, focalizza il suo sguardo su un piccolo gruppo familiare che presenta come una sopravvivenza di un Marocco tradizionale, in via di sparizione.
Si tratta di una coppia sposata, in età matura, che gestisce nella Medina una sartoria in cui si cuciono a mano artigianalmente dei caftani, dei preziosi abiti appunto tradizionali, di quelli che si tramandano di generazione in generazione, fatti di tessuti luminosi e ricamati in oro.
Che la laboriosa fabbricazione di quegli abiti sia ormai considerata un reperto del passato, lo attestano le ricorrenti rimostranze delle clienti della sartoria, che protestano per i lunghi tempi di attesa, non apprezzano il valore della cucitura a mano rispetto alla cucitura a macchina, preferirebbero, le giovani, abiti più aderenti al loro corpo.
Ma il film di Maryam Touzani non si limita a descrivere l’attività di una vecchia bottega artigianale, e anzi non è forse questo il tema che più preme all’autrice. Il suo racconto si concentra piuttosto sui rapporti tra i due coniugi. Sono rapporti certo improntati all’affetto reciproco, a un’intesa profonda cementata da anni di convivenza a casa e nel negozio (se il marito è il sarto, è la moglie che gestisce i rapporti con le clienti) ma a cui manca ora, e forse manca da sempre, almeno da parte del marito, la passione, il trasporto erotico.
Egli, scopriremo presto, approfitta delle ore di relax che trascorre negli hammam, per incontrarsi con degli uomini. Sono incontri segreti, clandestini, ma che pure, per come il film li lascia intravedere, sembrano anch’essi come codificati dalla tradizione.
L’uomo evidentemente li vive con vergogna, sentendosi in colpa, e non soltanto per profonde ragioni culturali e religiose, ma perché egli ama effettivamente sua moglie e vorrebbe che quell’amore fosse più completo, non macchiato da tradimenti. E quando, nella bottega, capita un giovane apprendista, che inopinatamente appare davvero interessato a quel mestiere in via di sparizione e che, conquistato forse dalla pazienza, dalla dolcezza con cui il sarto glielo insegna, se ne innamora, l’uomo, che pure è chiaramente attratto dal giovane, troverà la forza, almeno in un primo tempo, per respingerlo.
Dicevo in apertura dell’idealizzazione che l’autrice opera sul mondo circoscritto che ha scelto di raccontare. La bellezza degli abiti fabbricati nella bottega sembra fare tutt’uno con la bellezza morale dei suoi abitanti. L’omosessualità del marito non costituisce un’ombra sul personaggio. Il fatto che la reprima, o che accetti di viverla di nascosto, è anche un commovente sacrificio per amore della moglie, la quale intuisce il segreto del marito, ne è anche gelosa; ma poi, addolcita e resa come più saggia da una malattia, glielo perdona, tanto da favorire una convivenza a tre che comprende il giovane apprendista.
L’armonia senza attriti che si stabilisce così fra i personaggi, può suonare un po’ irreale, e, almeno in questa fase del racconto, si percepisce il difetto del sentimentalismo, che è una conseguenza dell’idealizzazione dei personaggi di cui dicevo.
Ma è un difetto in fondo marginale, perché, per altri aspetti, tutti e tre i caratteri sono incisi con vigoroso realismo, attraverso un racconto che per tutta la sua durata sembra spiare i loro volti: perché i loro autentici sentimenti non possono essere dichiarati con le parole, ma trapelano attraverso le loro, anche minime, variazioni espressive.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 30 settembre 2023
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