Mi credevo esperta
ed ero impreparata.
Imbiancata e storta
sotto il peso della cenere
(M.B. Cerro)
È stato detto tanto sulla pandemia e sui fatti drammatici e imprevedibili che nel 2020 ci hanno coinvolti tutti, indistintamente. E si è anche scritto tanto. In prosa, come in poesia, ma credo che queste “prove” di Maria Benedetta Cerro siano tra le cose più belle e condivise che mi sia capitato di leggere sul tema.
La raccolta Prove per atto unico, Edita da Macabor (2023) con la bella ed esaustiva prefazione di Tommaso Di Brango, si apre con i “Versi della malapena” e della “Mala Hora”. Sono poesie quasi sussurrate, bisbigliate, che germogliano urgenti e necessarie dentro il dramma del silenzio, della distanza e della morte. Sono abitate dello smarrimento e della pena di un tempo storico condiviso (in cui i ritmi della normalità e le consuetudini vengono sconvolti) e che travalica confini, muri, frontiere e abbraccia tutto e tutti, esseri umani, cose, oggetti. Siamo dentro la metafora degli ‘alberi’, immobili, impotenti, con i piedi radicati a terra, lo sguardo che vaga e si inabissa in un fazzoletto di cielo, scrive infatti la poeta “Ci è imposto di stare – ora siamo alberi -/ Ci tocca l’imprevisto/ l’impotenza/ la trasformazione” (p. 23).
Essere dunque in un destino condiviso, dove le cose hanno perso la loro condizione inanimata, per farsi gancio, appiglio, zattera del naufragio, ma anche referenti emotivi della nostra solitudine obbligata, vissuta dietro porte chiuse e orizzonti all’improvviso fatti brevi. Ecco, è in questa precarietà e in questa incertezza del domani, che si collocano questi versi di Maria Benedetta Cerro, quasi un diario che ripercorre in tutte le sue sfumature la vulnerabilità di un’anima assediata dal silenzio che perdura. Sperimentare il mito della caverna buia e senza specchio, senza l’altro che ci restituisca a noi stessi. Sperimentare in quel buio della caverna il sentimento nudo della vita e della morte. E nella solitudine interiore, che è riflesso di quella esteriore, il sentimento dell’appartenenza “vide gli oggetti farsi umani/ –sembrare che una pena li turbasse / o una gioia repentina” (p. 22). E poi stupirsi di fronte ai piccoli miraggi della natura che (r)esiste: il mandorlo fiorito, le violette tra le crepe, gli aranci in fiore, un lillà fiorito appena, un glicine fastoso, i gelsomini, alcuni gerani vivi tra i tanti ridotti scheletro. Sono i ciuffi d’erba, i fiori e i germogli che danno anima e assieme alla luce testimoniano la vita “Così si ferma il respiro/ quando sorprendi la bellezza/ che prende la mira/ per accecarti fino al cuore” (p. 71).
E sopraggiungono i versi delle due ultime sezioni ‘La casa dell’armonia’ e ‘I giuramenti del vento’ dove si aprono varchi e spiragli di speranza e dove la mano si protende “Risolvimi/ mi sono aggrovigliata nei miei numeri. / Cupamente / nel respiro dei morti mi sono precipitata. / A te / senza mediazione / dico -salvami adesso- (p. 82). C’è la consapevolezza della complementarietà/necessità di un incontro tra l’io e l’altro e -dell’appartenenza. Non ci sono verità assolute in questo libro, ma prove e tracce. Scavo della parola e del linguaggio per non dimenticarsi, per non dimenticare, per capire “le nostre vite analfabete”, “per dare un nome a tutto questo” perché “solo ciò che ha nome esiste e vale”. E in Maria Benedetta Cerro è forte la lezione di Heidegger sul linguaggio, che nel suo essere essenziale, come lo è la poesia, istituisce il mondo e lo porta alla luce, lo avvicina a noi.
Prove per atto unico è un libro che parla piano, in forma di sospiri, scortica le parole, entra dentro chi la legge, scava solchi per lasciare tracce condivise.
Maria Pina Ciancio
*
Vanno via e tornano cenere – i giorni –
Senza interiezione
come una constatazione.
Bisogna che si fermi – quest’ultimo –
E scrivo.
Poi lavoro tutto il giorno.
Ma – ho scritto –
Per chi si cerca e non sa
che il se stesso è nell’altro.
(Maria Benedetta Cerro, p. 26)
Maria Benedetta Cerro, Prove per atto unico
Macabor, 2023, pp. 94, € 13,00