Un fenomeno clamoroso, evidente a ogni spettatore che frequenta le sale cinematografiche, è che quelle sale - anche quelle dedicate al cinema d’essai - sono tornate a riempirsi di pubblico per due film: Barbie di Greta Gerwig (di cui mi sono occupato in questa rubrica qualche settimana fa), e ora Oppenheimer di Christopher Nolan.
Sono due film che, in apparenza, non hanno nulla in comune fra loro, salvo il fatto che non sono due successi prevedibili, scontati; e che entrambi colgono, a loro modo, un aspetto reale del mondo di oggi: la lotta delle donne contro la supremazia degli uomini nei ruoli dirigenziali della società (nel caso di Barbie), e la minaccia che la bomba atomica ancora rappresenta per la sopravvivenza dell’umanità (nel caso di Oppenheimer). Credo che l’attrazione che esercitano sul pubblico questi due film derivi dall’impressione, forse inconscia, che riguardano due problemi avvertiti come urgenti e vitali.
La chiave con cui il secondo film affronta il tema è quella di un film storico, perché si racconta di come il fisico Robert Oppenheimer, nel corso della seconda guerra mondiale, alla guida di un gruppo di scienziati, sia riuscito a costruire la prima bomba atomica, facendo così vincere la gara per la costruzione della bomba agli Stati Uniti contro la Germania nazista, e decidendo definitivamente le sorti della guerra.
Ma se il contesto è storico, l’elemento più vivo del racconto, che può renderlo anche attuale, è il fascino contraddittorio - misto, cioè, a orrore - che la bomba esercita sugli stessi scienziati chiamati a costruirla; e poi su chi assiste alla loro impresa, sia nel campo di Los Alamos - dove si svolge gran parte del racconto - sia oggi in una sala cinematografica. È un fascino che si avverte già quando, come un prodigioso giocattolo, la bomba è costruita, un pezzo alla volta, sotto i nostri occhi. Ma è un fascino che si dispiega poi nella scena dell’esperimento della prima esplosione della bomba nel deserto. Quelle volute di fuoco che crescono l’una sull’altra, che occupano il cielo e che sono forse inarrestabili (poiché, si paventa, la reazione a catena suscitata dalla bomba potrebbe essere incontrollabile e incendiare l’intera atmosfera terrestre) costituiscono uno spettacolo che dovrebbe essere enfatizzato dagli schermi cinematografici giganteschi per cui il film è stato progettato, e da cui i personaggi non riescono a distogliere gli occhi, anche se potrebbe accecarli.
Non si tratta però - o non soltanto - di infantilismo o di un paradossale estetismo. Quella riuscita esplosione rappresenta un successo dell’ingegno umano, che ha scoperto il segreto della distruzione del mondo. E le conseguenze militari sono evidenti a tutti i personaggi, perché ora la vittoria in guerra degli Stati Uniti appare inevitabile.
E in un dibattito che accompagna l’evento, Oppenheimer auspica che la guerra sarà d’ora in poi impraticabile, e che le nazioni saranno costrette a cooperare per la pace.
Ma malgrado queste considerazioni razionali, il fascino istintivo suscitato dalla bomba è così vivo, e accompagnato dal senso di colpa, almeno nella figura del protagonista, che costituisce il sottotesto di un secondo momento della vicenda, intersecato al prima per tutta la durata del film. Qui si racconta di una specie di processo, avvenuto dopo la guerra, ai tempi del maccartismo, contro Oppenheimer accusato di essere comunista e di avere rivelato segreti militari degli Stati Uniti all’Unione Sovietica. L’accusa è ingiusta, e la figura di Oppenheimer resta nel film quella di un eroe integro, fedele al suo paese. Ma se si sottopone a quel processo di cui la sentenza sembra già scritta, se accetta che sia clamorosamente violato il suo diritto alla difesa, se non contesta la legittimità di quel procedimento, come vorrebbe sua moglie, è perché, si suggerisce, si sente lui stesso colpevole: non certo delle accuse che gli vengono mosse, ma forse proprio di quel senso di onnipotenza provato al momento della prima esplosione (e poi, certo, dell’esplosione in Giappone che ne è seguita, e delle conseguenze potenzialmente apocalittiche che la sua invenzione potrebbe comportare per l’umanità).
Oppenheimer è un film a volte ridondante, così zeppo di dati e di informazioni che si fatica a registrarle tutte, e di una chiarezza schematica, particolarmente nel disegno psicologico dei personaggi. Non si può però negare che sia un film di audace e originale concezione, che sia accuratamente progettato in tutti i dettagli (per esempio nella scelta dei volti, mai banali, anche per i personaggi più secondari) e che sia del tutto degno di interesse.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 26 agosto 2023
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