Un film d’autore è tale quando trapela, attraverso le immagini, la personalità di chi le ha inventate, un modo originale di guardare la realtà.
Nel caso di Cristian Mongiu - un autore rumeno che si è imposto all’attenzione dei festival, della critica e del pubblico più attento, a partire dai primi anni del Duemila - c’è forse un elemento che più di ogni altro determina l’originalità del suo stile: ed è la sua teatralità. Non intendendo però per “teatralità” una tendenza all’artificiosità degli atteggiamenti del corpo, o delle intonazioni, o l’enfasi delle battute. Il teatro che richiamano le sue immagini è semmai un teatro naturalistico, che tende cioè a un’imitazione esatta, fedele, della realtà. Ma quelle immagini evocano un palcoscenico quando, per esempio, riuniscono in un’unica inquadratura, per un tempo prolungato, un folto gruppo di personaggi, senza che le loro interazioni siano analizzate, scomposte e ricomposte attraverso il montaggio, come avviene abitualmente in un film, ma lasciando libero lo spettatore di osservare le figure, i volti che più lo interessano, proprio come fosse a teatro davanti a un palcoscenico.
Inoltre i suoi film, e il suo ultimo in particolare, hanno la tendenza, che è del dramma teatrale, a concentrare il racconto su un’unica azione, attraverso la quale si svela un conflitto importante, forse fondamentale, della realtà che il film prende in considerazione.
Nel caso di Animali selvatici quel conflitto può essere facilmente definito: è la xenofobia, il razzismo nei confronti degli stranieri.
L’azione si svolge in un villaggio della Transilvania durante in periodo del Natale: un Natale scenograficamente suggestivo, per via delle strade un po’ innevate, attraversate di notte da radi passanti infagottati e sormontate dalle luminarie; delle case affollate di amici e parenti riuniti intorno alla tavola da pranzo. Non si tratta di una scenografia esteriore rispetto alla vicenda, ma ha essa stessa una funzione drammaturgica: esprime da un lato l’attaccamento degli abitanti del villaggio alle proprie tradizioni; dall’altro evidenzia il loro tradimento dello spirito di quelle tradizioni, almeno di quelle religiose. Se il Natale dovrebbe celebrare l’amicizia e perfino la fraternità, i personaggi sono amici soltanto di chi appartiene alla loro etnia e sono ostili agli stranieri.
Capita che il panificio del villaggio, per aumentare il numero dei dipendenti e ricevere le sovvenzioni europee, assume alcuni immigrati dallo Sri Lanka. Ebbene, gli abitanti del villaggio insorgono.
In un’assemblea a cui presiedono, significativamente, il parroco e il sindaco, alleati fra loro, entrambi prudenti nel non contrastare i concittadini, costoro da un lato accusano il panificio di assumere gli stranieri, anziché i connazionali, costretti ad emigrare, per tenere bassi i salari; d’altro lato manifestano una ripugnanza nei confronti del corpo stesso degli stranieri, di quelle mani che impastano il pane che loro dovrebbero mangiarsi: una ripugnanza che è manifestamente razzista. Che si esprime anche contro gli “zingari”. E nel calore della discussione, la stessa assemblea si rivela tutt’altro che unita, perché ungheresi e rumeni finiscono per litigare tra loro.
Uno dei protagonisti del film è un operaio, emigrato in Germania, tornato in Transilvania dalla moglie e dal figlio per il Natale. È delegato al suo personaggio il compito di rappresentare più a fondo la mentalità che sarebbe all’origine della xenofobia. Tra gli insegnamenti che impartisce al figlio, ancora bambino, insieme a quelli di un maschilismo tradizionale, ce n’è uno particolarmente significativo: per conquistare e difendere il paese dagli invasori, i loro avi hanno dovuto non avere pietà, perché in una guerra chi ha pietà perde e muore.
Animali selvatici è un film più efficace nella resa degli aspetti ambientali, sociali e culturali del racconto, che in quella dei profili psicologici individuali dei personaggi, che sono più generici. Ma è un esempio, al cinema, di un teatro civile che emoziona, allarma e suscita rabbia per un’ingiustizia evidente, a cui nessuno dei personaggi riesce a rimediare. Forse, in quel contesto, l’Europa, evocata per i suoi fondi e nella figura di un giovane delegato francese di una ONG, rappresenta un’alternativa politica e culturale.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 15 luglio 2023
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