La poesia di Dylan Thomas mette in scena un repertorio di immagini così legate alla propria fluente vena metaforica e così lontane dal mondo nel suo insieme che risulta arduo definire l’essenza della sua poetica.
Il dire poetico di Thomas, impregnato del proprio esistere, lo pervade in ogni sua fibra, come un fiat sgorgato dalle viscere del nulla, ma accordato sempre al proprio stato d’animo.
Poesia difficile, ma sincera. Ostentatamente avversa all’intellettualismo, alla tradizione e alimentata da pura trasgressione sul filo di una visionarietà spinta fino all’ossessione.
Poesia complessa, densa di figure e libere associazioni da farne una delle fonti di ispirazioni del cantautore statunitense Bob Dylan che, pare, abbia preso dal poeta gallese il suo nome d’arte.
Dylan Thomas era stato quattro volte in America, a partire dal 1950 per leggere in pubblico i suoi versi e dare ampia risonanza al suo grande amore per la parola sfavillante del dire poetico; e proprio in America era stato consacrato come uno dei maggiori protagonisti della poesia contemporanea.
Consapevole della propria straripante creatività, Thomas si colloca così in quella modernità che produce una frattura tre la poesia e il mondo.
Uno scisma, un divorzio scrive George Steiner, quasi un tradimento del logos nei confronti del cosmos.1
Da questa prospettiva sembrerebbe però volersi porre fuori il Nostro, avendo dichiarato nelle sue lettere,2 fin dall’inizio della carriera letteraria, che il concentrarsi sull’invenzione lirica e sulla creazione del linguaggio avesse come scopo l’esprimere con naturalezza la visione della realtà del mondo.
Una realtà – ovviamente – soggettiva, vista attraverso il filtro della visionarietà e puntata contro quanti rifiutano una poesia personale sostenendo l’intellettualizzazione del mondo poetico.
Nella lettera, indirizzata a Pamela Hansford Johnson del 1933, si legge:
Posso proprio riconoscere, non pensare, che nulla sia privo di interesse, posso estendere le mie convinzioni e credere ancora una volta, come ho appassionatamente creduto e così appassionatamente voglio credere nella magia di questo ardente e sconcertante universo, nel significato e nel potere dei simboli, nel miracolo di me stesso e di tutti i mortali, nella divinità che è così vicina a noi, e che desidera tanto essere più vicina, nell’incredibile meraviglia rosso-vivo, splendente del cielo che posso vedere in alto e del cielo al quale posso pensare dal basso.3
E in un’altra lettera del 1938 a Henry Treece, autore di un importante studio critico sulla sua opera:
… A una mia poesia occorre una schiera di immagini, perché il suo centro è una schiera di immagini. Costruisco un’immagine – sebbene “costruire” non sia la parola esatta, lascio forse che un’immagine venga “costruita” emotivamente in me e poi applico a essa quelle forze intellettuali e critiche che possiedo – lascio che essa ne generi un’altra, lascio che quell’immagine contraddica la prima, faccio, della terza immagine generata dalle altre due, una quarta immagine contraddittoria, e lascio che tutte entrino in conflitto nei limiti formali da me imposti. Ogni immagine contiene in sé i semi della propria distruzione, e il mio metodo dialettico, così come lo vedo è un costante edificare e demolire le immagini che emergono dal seme centrale, il quale è esso stesso distruttivo e costruttivo al contempo. […] La vita in ogni mia poesia […] emerge dal centro; un’immagine deve nascere e morire in un’altra; e ogni sequenza delle mie immagini deve essere una sequenza di creazioni, ricreazioni, distruzioni, contraddizioni. […] Dall’inevitabile conflitto delle immagini […] cerco di costruire quella pace momentanea che è una poesia.4
Ma non è proprio la tecnica compositiva, che rende la parola poetica estranea a se stessa e alle cose, non disponendo del necessario ed adeguato repertorio di immagini per assicurare leggibilità e coerenza alla realtà del mondo nel suo insieme?
Un dire altro attraverso cui il procedimento allegorico esplicitandosi, diviene un dire impreciso, indefinito e il mondo appare ambiguo, inafferrabile. Una poesia certamente non facile da penetrare e comprendere come ha scritto Eugenio Montale a commento dell’antologia thomasiana5 di Roberto Sanesi: «Forse è un errore volerlo comprender troppo; fondamentalmente era un analogista a sfondo religioso, che non avrebbe scritto un rigo se si fosse davvero chiarito razionalmente.
«In ciò Dylan fu veramente “moderno” in tutti i sensi, buoni e men buoni, e chi lo ama non lo vorrebbe diverso».6
Modernità intesa, quindi, come rottura del rapporto di corrispondenza tra il dire poetico e il mondo nella continua scomposizione e ricomposizione del reale.
Alla base della produzione lirica di Thomas sta, in sostanza, uno strato di immagini e un nucleo di grande impatto simbolico che è poi l’idea stessa che Thomas ha della Poesia.
Io, nella mia intricata immagine, a grandi passi avanzo su due piani/ Forgiato in minerali d’uomo, oratore d’ottone,/ Forzo il mio spettro nel metallo/ Premo i due piatti di bilancia di questo duplice mondo/ questo mio mezzo spettro in armatura tengo saldo/ Nel corridoio della morte, al mio uomo di ferro/ m’accosto furtivo…
Un coacervo di dimensioni (minerali, vegetali, naturali e religiose) dove il poeta affonda le sue radici cominciando proprio dalla duplice valenza simbolica della morte: inizio e fine.
Religione naturale e spontanea di un poeta in formazione, o meglio in continua evoluzione, che rimanda, in certo senso, all’evoluzione creatrice sostenuta dal filosofo Henri Louis Bergson.7 Evoluzione che in Thomas si evidenzia fin dalla prima pubblicazione di Eighteen Poemes (18 Poesie), pubblicato nel 1934; l’opera ebbe un immediato impatto sui critici letterari per le sue immagini insolite, violente e brillanti associate dal poeta alla misteriosa relazione fra i cicli perpetui e i processi di nascita e morte, rigenerazione e distruzione sia nella natura che nella configurazione fisica e psicologica dell’uomo.
Vita e morte in un intreccio inestricabile ed oscuro che apre a diverse letture: la prima è quella di trovarsi nel regno della poesia pura, essenza della parola poetica che cessa di comunicare e rimanda al segreto, non comunicabile dell’esistenza:
La forza che attraverso il càlamo sospinge il fiore
È quella che sospinge la mia verde età;
Quella che spacca le radici agli alberi
È la mia distruttrice.
E io non ho parole per dire alla rosa incurvata
Che la mia giovinezza è piegata da identica febbre
invernale.
La forza che spinge le acque attraverso le rocce
Spinge il mio rosso sangue;
Quella che le correnti prosciuga alla foce
Le mie trasforma in cera:
E io non ho parole per gridare alle mie venerdì
Che alla sorgente montana la stessa bocca sugge.
La mano che mùlina l’acqua sul fondo dello stagno
Agita sabbie mobili
Quella che allaccia il soffiare del vento
Tende la vela del mio sudario.
E io non ho parole per dire all’impiccato
Che la mia creta è fatta con la calce del carnefice.
Al getto della fonte le labbra del tempo sorseggiano;
L’amore stilla a gocce e si condensa, ma il sangue versato
Addolcirà le piaghe di colei che amo.
E io non ho parole per dire a tutto l’impeto del vento
Come attorno alle stelle il tempo ha scandito un suo cielo.
E sono muto per dire alla tomba di colei che amo
Come lo stesso verme tortuoso si avvia al mio sudario.
L’altra lettura rimanda al tempo in cui il testo fu composto.
Siamo nel 1933 e si pensa ai giorni terribili degli attacchi nazisti scolpiti in versi con simboli visionari e gigantesche metafore.
“L’uomo – ha scritto Roberto Sanesi – partecipa di una forza elementare, di una linfa comune ad ogni essere […] che finisce col risolvere il pensiero dominante della nascita e della morte in una concezione panteistica […] e dove il tentativo di liberazione è svolto in termini continui di simbolismo sessuale spesso abbastanza evidente. Ogni sviluppo nel cammino della vita, ogni gradino raggiunto, è un passo che avvicina alla morte”.8
Evoluzione creatrice… e da poeta affascinato dalla natura ne coglie la visione del passato che gli permette, al presente, di superare la contrapposizione tra materia e spirito:
… Lasciate che vi crei con vocali di faggi/ Alcune con voce di quercia, fino dalle radici vi dice/ Di molte note una contea spinosa, lasciate/ Che coi discorsi dell’acqua vi crei…
Poeta libero, Dylan Thomas! Ma da che cosa è libero? Non certo da se stesso. Libero dal tempo e dal luogo per lasciarsi trascinare dalla forza evolutiva, da ciò che va da sé nel nome dell’ebbrezza quasi estatica dello scorrere che non conosce ostacoli e tutto trascina nel suo impeto:
… liberamente perduto/ Nella famosa e ignota luce del grande/ E favoloso e adorato Dio…
È questa la cifra della poesia di Thomas: un fiume in piena, un quid che sfugge, imprendibile, l’inconoscibile nel conosciuto, l’imprevisto nel prevedibile, l’impossibile nel possibile.
Il suo dire poetico ha certamente a che fare con la poesia, ma non nel senso che la poesia lo dica o lo significhi, “non esattamente che l’arte è estranea alla poesia, ma la poesia è, questo sì, l’interruzione dell’arte”.9
Giuseppina Rando
1 George Steiner, La poesia del pensiero. Dall’ellenismo a Paul Celan, Garzanti 2019.
2 Dylan Thomas, Ritratto del poeta attraverso le lettere, Einaudi 1970.
3 Dylan Thomas, Selected Letters, (a cura di C. Fitzgibbon, 1966; trad. di B. Oddera), Torino, Einaudi 1970.
4 Dylan Thomas, Ritratto del poeta attraverso le lettere, Einaudi 1970, pp. 214-215.
5 Dylan Thomas, Poesie, con testo a fronte. Traduzione, introduzione e note di Roberto Sanesi, Guanda 1962.
6 Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori 1976, p. 488.
7 Henri L. Bergson, L’evoluzione creatrice, a cura di M. Acerra, BUR, Rizzoli 2012.
8 Cfr. Dylan Thomas, Poesie, con testo a fronte. Op. cit.
9 Paul Celan, “Il Meridiano” in La verità della poesia, Einaudi 1993, p. 11.
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea.
Nel corso di una vita straordinariamente intensa, per quanto breve, ha scritto poesie, saggi, sceneggiature, racconti (molti a sfondo autobiografico) e un dramma teatrale dal titolo Sotto il bosco di latte la cui versione radiofonica ha vinto il Prix Italia nel 1954.
Figlio di un professore della grammar school di Swansea, Dylan Thomas mostra sin dall’infanzia attrazione verso la poesia e il furore eroico dei guerrieri celtici. A soli vent’anni scuote l’ambiente letterario londinese con Diciotto poesie (Eighteen poems, 1934). Al 1936 risalgono le Venticinque poesie (Twenty-five poems), cui seguono Il mondo che respiro (The world I breathe, 1939), e La mappa d’amore (The map of love, 1939) che comprende liriche e prose. Il libro che raccoglie le sue più note poesie è Morti e ingressi (Deaths and entrances, 1946).
Sposa Caitlin Macnamara nel 1937 e la coppia ha due figli e una figlia. Tuttavia, mentre la fama del poeta cresce negli ambienti letterari la sua vita si distingue per vizi ed eccessi, sperpero di denaro e alcolismo: un’abitudine che lo conduce alle soglie della povertà.
Per sostenere la sua famiglia, Thomas lavora per la BBC e come sceneggiatore cinematografico durante la seconda guerra mondiale (era esonerato dai combattimenti per una malattia polmonare), ma ha continuato a lottare finanziariamente e a coprirsi di debiti. Inizia dei tour di lettura per guadagnare, ma le sue letture assomigliavano più a esibizioni sgargianti che ad eventi poetici. Ha visitato gli Stati Uniti quattro volte; la sua ultima apparizione al City College di New York avviene nell’ottobre del 1953. Il 5 novembre, dopo un lungo periodo di bevute, colpito da collasso al Chelsea Hotel, entra in coma. Ricoverato al Saint Vincent’s Hospital, vi muore il 9 novembre 1953, all’età di 39 anni.
Le varie raccolte di poesie apparse tra il 1934 e il 1952 sono state poi ripubblicate nel volume di Poesie scelte 1934-1952 (Collected poems 1934-1952, 1952).
Poco prima della morte pubblica Il medico e i diavoli (The doctor and the devils, 1953). Molto nota la sua produzione narrativa: Un ritratto dell’artista da cucciolo (A portrait of the artists as a young dog, 1940) e il radiodramma Sotto il bosco di latte (Under the milk wood) pubblicato postumo nel 1954.
Dopo la sua morte è stata data alle stampe una raccolta di Lettere scelte (Selected letters, 1966), e Lettere a Vernon Watkins (Letters to Vernon Watkins, 1957). Fra le tante pubblicazioni postume: Quite early one morning (1954), Adventures in the skin trade (1955).