In occasione della giornata europea del 9 maggio è stato diffuso un rapporto redatto per conto dell’Europarlamento che ha calcolato i vantaggi di una maggiore coesione dell’Ue e i rischi di un ritorno dei nazionalismi e della frammentazione tra gli stati membri. Arrestare il processo di integrazione europea riportando sempre più poteri nelle mani dei governi nazionali potrebbe costare ai 27 Paesi Ue fino a 480 miliardi di euro all’anno da qui al 2032. Al contrario, aumentare le politiche congiunte così come proposto dal Parlamento europeo consentirebbe di avere nei prossimi 10 anni una ricchezza aggiuntiva di 2.800 miliardi.
«L’integrazione europea» si legge nella relazione «ha favorito un’espansione del Pil dell’Ue compresa tra il 6 e l’8%, che altrimenti non sarebbe stata realizzata». Più in generale è riuscita a promuovere la pace, la governance democratica, la protezione dell’ambiente e l’innovazione in tutti gli Stati membri e a rafforzare la resilienza di fronte alle crisi, inclusa la della pandemia di Covid-19.
Allo stesso tempo, però, nel continente sono emersi movimenti e partiti euroscettici e anti-Ue che stanno spostando gli equilibri e che potrebbero favorire un ritorno dei nazionalismi bloccando l’integrazione, se non addirittura invertendola. Le prossime elezioni europee, previste nel giugno del 2024, saranno cruciali in tal senso. «Guardando al prossimo decennio» scrivono gli autori dello studio «l’Europa può scegliere tra 3 diverse opzioni». Il primo scenario delinea un semplice proseguimento per un decennio delle azioni politiche già avviate, senza un sostanziale contributo aggiuntivo dell’Ue. In questo caso, il Pil reale passerebbe da un valore di circa 15mila miliardi di euro nel 2022 a circa 17mila nel 2032, a parità di potere d’acquisto, il che si tradurrebbe nel periodo esaminato in una crescita media annua del Pil dell’1,3%.
C’è poi la prospettiva di maggiori iniziative comuni secondo quanto delineato da diverse proposte del Parlamento europeo. Se così fosse, lo studio calcola una crescita media annuale del Pil complessivo dei 27 Paesi membri pari al 2,9% che, tradotto in soldoni, vorrebbe dire un aumento rispetto all’ipotesi dello status quo di circa 2.800 miliardi in 10 anni. A questa cifra si giunge prendendo in esame 50 settori strategici dove si mira ad accrescere le politiche comuni (in particolare trasporti, green economy, digitalizzazione, riforma del Patto di stabilità, nuovo regolamento per le banche e l’euro digitale, sanità, giustizia, occupazione, parità di genere, cooperazione internazionale). Aggregare le competenze, suggerisce lo studio, non vuol dire eliminare i poteri nazionali, ma portare a un miglioramento in termini di efficienza e utilizzo delle limitate risorse esistenti che nel complesso potrebbe generare quasi 800 miliardi in più nel prossimo decennio.
Il terzo scenario analizzato dallo studio è quello della frammentazione, che comporterebbe una perdita di efficacia dell’azione dell’Ue a causa di posizioni divergenti tra gli Stati membri. Secondo l’analisi l’inversione di tendenza nel processo di integrazione Ue avrebbe come effetto una perdita media di 480 miliardi all’anno da qui al 2032 e il tasso medio annuo di crescita del Pil reale scenderebbe allo 0,6% nel periodo in esame.
Sta all’Europa decidere quale strada scegliere, ma intanto arriva un monito per far riflettere chi vorrebbe rimettere in discussione i fondi europei garantiti dal Pnrr.
Guido Monti