“La notte lascia spazio a parole mute, che non smettono di battere nelle nostre tempie”. Per questo allora un Nottario, in cui scrivere, ci dice Marco Ercolani, il suo autore, “quello che è il contrario di un Diario: se il diario accoglie le annotazioni diurne della percezione, il nottario rivela i soprassalti notturni del pensiero”.
La notte. Sonno. Non sonno. Dormire. Non dormire. E una matassa di fili che pluralizzano la nostra esistenza. Pensieri della stessa natura, si direbbe, di un’epifania. Della stessa natura e forza. La forza di irrompere in un luogo buio e solitario, per certi aspetti anche sacro. Luogo dove ci si consuma (notte - dormire - non equivale a fermare il tempo) ma anche luogo, per la tregua dal quotidiano che il buio innesca, in cui si è disposti e aperti all’attesa. Un’attesa da afferrare nella sua pluralità di universi, schegge metafisicamente invasive che sgorgano poi in scrittura.
Difficile trovare un centro in Nottario, perché ogni pensiero che si affaccia e pulsa è un centro, un centro che cuce addosso la frattura del mondo. Poniamo però di averne individuato uno, non è, ripeto, il centro perché ogni pensiero lo è, è piuttosto quel centro che tra i centri si è fatto per gli altri calamita, ossia: “Il segreto di questo mondo è un enigma che nessuna sapienza scioglierà: lo potrà risolvere un incantesimo o una fiaba”.
Segreto. Enigma. Nessuna. Sapienza. Incantesimo. Fiaba. Il segreto, qualcosa di per sé nascosto, che a sua volta si nasconde in un enigma, di per sé irrisolvibile. Inutile la sapienza. Conoscere è uno strumento non sufficiente per risolvere enigmi, solo l’incantesimo o la fiaba può venire in soccorso. Una dimensione che ci riporta alla nostra infanzia, ad un periodo della vita non ancora strutturato, fatto di materia e antimateria, in cui tutto sembra possibile, quantistico. Sembra. Perché, seppure totalmente espansi, anche la fiaba e l’incantesimo hanno i loro angoli oscuri, le loro criticità. E allora? Ecco, c’è “la mia intima carezza” a cui affidarsi “e i suoi occhi chiusi, colmi di gioia. Come vorrei dimenticarli così vorrei ricordarli fino all’ultimo secondo di vita: sono la certezza che l’amore ci attraversa e ci rende immortali, come un vento di cui non dobbiamo presentire la fine”.
Quello che neppure la fiaba e l’incantesimo possono fare, ossia fermare il tempo, lo possono gli occhi chiusi colmi di gioia. La gioia e l’amore. Che folgorano l’istante e così, in e per quell’istante folgorato, si ruba lo scorrere del tempo, opacizzando forse anche il segreto e l’enigma.
Un perno, questo centro, che è percezione di immortalità, la resa di quel diurno che si accampa nelle nostre profondità, che le ammorba. Il notturno, il dormire/non dormire come flusso di molecole che possono scomporsi e ricomporsi in ogni stato e direzione, mai però in modo meccanicistico.
Mai in modo meccanicistico, si è detto. E questo sempre, in tutta la pluralità di centri del Nottario. Perché la parola del Nottario è “frase a cui non serve il linguaggio” e per questo si fa entità viscerale, quell’entità in cui attesa emotività e psichicità sono il grembo che ci tiene e al contempo ci fa sbocciare. La linfa di cui nutrirsi e in cui scavarsi, lì, nel sonno che è “malattia felice, che ruba la vita al presente per restituirla futura”. Un’amorevole, anche se momentanea, metamorfosi del tempo e del linguaggio.
Come amorevole metamorfosi del tempo e del linguaggio, e qui non tanto o non solo momentanea ma piuttosto voluta dal suo autore, è il Nottario di Marco Ercolani.
Silvia Comoglio
Marco Ercolani, Nottario
I Quaderni del Bardo, Sannicola, 2023, pp. 116