Si sa che se volessimo dare una sincera, realistica immagine di ciò che siamo in una certa fase della nostra vita, quell’immagine non potrebbe essere dominata da un unico sentimento, da un unico pensiero: sarà composta di tanti frammenti emotivi, di tanti pensieri, eterogenei e anche contraddittori, che però, nel loro insieme, finiranno per comporre una specie di grafico della nostra interiorità.
Mi sembra questo il tentativo che ha intrapreso Nanni Moretti nel suo ultimo film, Il sol dell’avvenire. Intendiamoci: è impossibile per noi stabilire quanto il personaggio del regista che Moretti interpreta nel film corrisponda al Moretti reale. È, credo, un aspetto di sé che ha selezionato e ha scelto di esprimere, ed è abbastanza sfaccettato e contraddittorio da darci un’impressione di vita reale. Se un’immagine, dai film precedenti, poteva esserci rimasta di lui, o meglio del suo personaggio, era di chi, forte di alcuni principi morali, di alcune salde convinzioni, era sempre in grado di opporre un proprio giudizio alla crisi del mondo esterno, che fosse il mondo della politica o il mondo del cinema, in un antagonismo quasi sportivo, che lo vedeva comunque idealmente vincente. Ora, in questo nuovo film, non è che quei principi o quelle convinzioni vengano meno, tutt’altro. Ma egli sembra avvertire come una mancanza di presa sul mondo esterno, nel senso che quel mondo sembra seguire nella sua trasformazione principi diversi da quelli in cui crede l’autore, tanto che egli comincia a sentire la vanità del proprio giudicare, un senso di sconfitta a cui rischia di non trovare in sé le forze per opporsi.
Il cinema, almeno quello in cui lui crede, originale, d’autore, destinato in primo luogo alle sale, è paragonato nel film a un trapezista che cammina su una corda sospesa su un abisso. I nuovi padroni del cinema sembrano essere le piattaforme digitali, Netflix per esempio, che richiedono prodotti standardizzati. Il gusto estetico sembra essere corrotto, e non avverte la volgarità dei film in cui la violenza è usata come un puro ingrediente di intrattenimento. La politica - e si riferisce certo a quella dei partiti di sinistra, o del principale partito di sinistra - ha da tempo deluso le aspettative. Quanto a lui, le persone più care - nel film, la moglie e la figlia - lo considerano con benevolenza, ma come un uomo in fondo ormai sorpassato dai tempi. Lui stesso teme che l’ispirazione artistica non sia più brillante come una volta. Il suo stesso corpo non è più in forma.
Si capisce allora come le forze negative della depressione, perfino della tentazione del suicidio, possano sopravanzare dentro di lui. E la loro ombra, a momenti, rischia di prevalere sull’umorismo, che resta comunque la chiave dominante del film.
E tuttavia, come anticipavo in apertura, l’immagine di sé che Moretti ci consegna, non è univoca, dominata soltanto da un senso di crisi e di disfatta. Sembra avere scoperto anche lui quel principio che, con le parole di San Paolo, si può definire spes contra spem, la riaffermazione della speranza quando ogni speranza sembra essere esaurita.
È un principio, una dinamica interiore, che nel film si concretizza in particolare in un’invenzione narrativa. Il regista sta girando un film sulla crisi che ha attraversato i militanti del Partito Comunista Italiano dopo i fatti d’Ungheria del ’56, quando, come è noto, l’Unione Sovietica represse nel sangue la rivolta dei giovani ungheresi, e il PCI si schierò a sostegno dell’Unione Sovietica. Nel “film da fare”, il protagonista, il segretario di una sezione romana del Partito Comunista, dovrebbe suicidarsi in seguito a questa scelta dei quadri del suo partito. Ma poi il regista del film ci ripensa, corregge il finale, correggendo anche dichiaratamente la verità storica. Il capo-sezione guida una rivolta contro il Partito, nella quale, a furor di popolo, convince Togliatti, il segretario del Partito, e gli altri dirigenti, a schierarsi contro l’iniziativa militare sovietica, a inaugurare una nuova via italiana al socialismo, celebrata in un corteo per le strade di Roma, che unisca, sembra di capire, all’ideale della giustizia sociale l’ideale della libertà.
Potrebbe sembrare una polemica tutta rivolta al passato, ma è evidente che per Moretti invece intende essere un’indicazione anche per il presente. Per questo, il finale del “film da fare”, che è anche il finale del film effettivo, conquista emotivamente e può anche commuovere.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 29 aprile 2023
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