Da quelle pareti allora le voci
chiamano ancora, chiedendo sollievo
per sé e per gli altri, per accompagnare
chi guarendo, vivrà anche per loro
(M. Brancale)
Questo libro di Michele Brancale, Salmi metropolitani e altri versi, pubblicato da Passigli lo scorso anno, si apre con una nota introduttiva di Paolo Ruffilli e uno scritto conclusivo di Antonio Tabucchi. La raccolta era stata già pubblicata in versione ridotta nel 2009, per le Edizioni Del Leone, e adesso ritorna in ristampa riveduta e arricchita di nuovi testi poetici.
È un volumetto corposo di 208 pagine che raccoglie 150 poesie numerate (tappe o stazioni le ha chiamate Paolo Ruffilli nella presentazione) e una sezione “Altri versi” in chiusura.
Rileggendo questa silloge mi sento di definire la poesia di Michele Brancale impegnata sul fronte civile con uno sguardo preciso, poetico e liberatorio sulla realtà urbana che lo circonda. In questa raccolta, così vicina alla modernità convivono soggettività e sentimenti collettivi, tanto che la sua poesia diventa lo specchio di una comunità, la sua, ma anche la nostra.
Con il primo testo d’apertura della raccolta, Michele Brancale annuncia la sua poetica e il suo rapporto con la città. Il punto di osservazione dell’autore, consente una vista ad ampio raggio su tutta la piana, palazzi, ferrovie, tralicci, oggetti, persone. Una realtà ‘aggredita’ dal frastuono e dalla fretta, questo è il primo elemento sensoriale che colpisce il lettore.
La piana, la cupola e i tetti rossi/ ed il verde interrotto dai tralicci/ quei cavi che richiamano i binari,/ i contatti sospesi nella corsa// È lunga più di un giorno di cammino/ la tua città aggredita dal frastuono./ La percorrono passi frettolosi,/ onde magnetiche di cellulari (p. 9)
Ma spostando lo sguardo dal centro alla periferia, ecco apparire gli stranieri, gli ambulanti, gli anziani, i senza fissa dimora, le prostitute. Un crogiolo di degrado e di anime inesorabilmente abbandonate al loro destino. Ed è su questo margine, che non è frattura, ma punto d’incontro, che nasce e si compie il miracolo della poesia di Michele Brancale. Una poesia che abbatte il muro dell’indifferenza e dell’Io, che va incontro, che osserva, ascolta, parla con la voce degli ultimi.
Si sente in Michele Brancale la capacità di stare dentro le cose e di vedere le cose con sguardo lucido e chiaro, ma soprattutto empatico ed umano, proteso ad accogliere. Un aspetto che ha ben sottolineato Tabucchi nella sua nota al libro, quando definisce la voce della poesia di Brancale -voce altra- «quando si leggono versi come questi l’altra voce arriva. E non viene solo dalla pagina ma suona dentro le nostre teste» (Tabucchi).
Ne nasce una scrittura senza compiacimenti, intensa, vicina alla prosa, dai toni puliti, calibrati, senza mai sbavature, sarcastica a volte, ma anche velata da un’ombra malinconica, come effetto della solitudine e della marginalizzazione dell’uomo.
Arido è il terreno in cui cammino/ tra i monumenti e le strade affollate/ nell’eco dei sonagli dell’orgoglio,/ scorgo solo le dune del deserto”. (p. 12)
Eppure, è proprio dentro questa prospettiva che l’autore sente il bisogno e la necessità di un riscatto per una collettività marginale, che popola ovunque i luoghi della nostra società contemporanea. Quella di Michele Brancale è una poesia che chiede salvezza e sa che questa non può che giungere dal riconoscere l’altro come portatore del messaggio evangelico: “la salvezza viene da un’altra voce,/ nella sosta presso la tua dimora” (p. 10).
Leggendo questi versi, mi è ritornato alla mente il messaggio di Madre Teresa e di Papa Francesco: “La pace si fa così: con l'umiltà, l'umiliazione, cercando sempre di vedere nell'altro l'immagine di Dio” (papa Francesco). Come si può rimanere indifferenti davanti alla fame, alla sete, al dolore, all’esclusione, all’emarginazione, alla solitudine, all’incomprensione delle persone che ci vivono accanto? Gesù dice che è Lui stesso in ciascuna di queste persone, e ciò che avremo fatto o non fatto a loro, l’avremo fatto o non fatto a Lui. Nelle 105 stazioni della sua raccolta, l’autore c’è, in ascolto, in preghiera, accanto ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, li chiama per nome, invita ad esserci, a non dimenticare.
L’uomo che ama la sua città non finge/ le proprie strade altrove. Vive dove/ sta un corso di pensieri radicato/ nel volto di chi incontra, nel cammino.// Fatti accanto al fratello dissipato,/ nutrilo di parole personali,/ da ramo secco riprende vigore (p. 152)
Ecco, allora, che questi versi si fanno germoglio di speranza e di amore. La città e la periferia (soprattutto) da luogo del degrado, diviene paesaggio ‘umanizzato’, spazio di convivenza, di relazioni, tessuto di valori e di speranza, da cogliere e da valorizzare.
Maria Pina Ciancio