Nel cinquantesimo anniversario della scomparsa di Achille Funi (1890-1972) il Mart di Rovereto dedica all’artista ferrarese, un focus di una sessantina di opere, tra dipinti e carte. La mostra ideata da Vittorio Sgarbi e curata da Nicoletta Colombo e Daniela Ferrari con la collaborazione di Serena Redaelli, ha il sottotitolo il volto, il mito ricerca di Funi sul tema del ritratto, e della mitologia. Si va dal momento futurista degli anni Dieci al periodo del Novecento italiano (di cui nel 1922 è uno dei fondatori), fino alla pittura murale degli anni Trenta e alle ultime opere.
I ritratti. È un momento felice per Achille Funi. Oltre alla mostra del Mart, piccola ma tra le più belle a lui dedicate negli ultimi anni, sta per uscire una sua biografia ed è prevista per l’anno venturo un ‘ampia antologica a Palazzo dei Diamanti a Ferrara. Non è un caso comunque che la rassegna roveretana sia così ben riuscita: i temi della figura e del mito sono i più cari all’artista e la misura piccola è la più congeniale alla pittura, anche se Funi è stato un infaticabile creatore di affreschi, come si vede in mostra nel monumentale Diosciro, che riprende le statue di piazza del Quirinale a Roma, «Ho dipinto chilometri di muri», amava dire. I suoi ritratti del 1920-21, però, come l’Autoritratto o il ritratto della sorella Margherita (La terra, ispirato alla Lavinia di Tiziano), hanno anche il merito di anticipare il Realismo magico, cioè la pittura precisa e stupefacente teorizzata da Massimo Bontempelli.
Uomo di proverbiali silenzi e di vaste letture, Funi conosceva fin da giovane la Bibbia, Ariosto e Tasso, cui più tardi accosterà Cesare, Plutarco, Eraclito, Aristotele, Nietzsche. «Un uomo senza cultura è un uomo morto. Se non fosse per le mie letture cosa sarei io oggi?», dirà pochi anni prima di morire. Nelle sue opere migliori tuttavia ha saputo conciliare due caratteristiche a prima vista opposte: la concretezza delle cose e la narrazione dei miti. Nei suoi quadri gli uomini esibiscono un corpo potente, le donne una figura ricolma, gli oggetti una evidente solidità. «Se non c’è la forma non c’è la vita», diceva. «L’unico problema dell’arte è lo studio ampio, energico della forma», scriveva nel 1934. E ai suoi allievi ripeteva sempre: «Quando avrete imparato la geometria della vita».
Così nell’Autoritratto con brocca blu del 1920, per esempio, si ritrae accanto a un prezioso vaso, ripreso dalle ceramiche rinascimentali e seicentesche, che porta stranamente il suo nome, anziché l’indicazione dell’acqua o del vino che dovrebbe contenere. L'artista tiene in mano il pennello ma non ha la tavolozza né il cavalletto, e sembra quindi che la sua opera sia il vaso stesso. Funi amava dipingere in questo periodo un popolo di persone sistematicamente accostare ad anfore, frutti, tazze, sfere. Accompagnava sempre la figura alla rotondità e alla pienezza di qualche recipiente che non aveva nessuno scopo, tranne esprimere quella rotondità e quella pienezza, appunto perché il suo ideale artistico era soprattutto la costruzione di una forma solida. Con la stessa solidità dipingeva anche i personaggi della mitologia e della letteratura antica, infondendo in quei racconti immaginari la consistenza delle sue figure quotidiane o dei suoi personaggi e, per contro, dando uomini e donne la nobiltà dei protagonisti del mito. Tra una bagnante in Versilia e un Afrodite al bagno, tra una modella in studio e una Rebecca biblica non vedeva differenze. Guardava l’esistenza di tutti giorni con gli occhi della fantasia e, in modo uguale e contrario, considerava gli episodi fantastici come se appartenessero a quelle che Umberto Saba chiama “la calda vita di tutti”. Per indicare l’arrivo del bel tempo estivo, per esempio, poteva scrivere con naturalezza: «Il sole ti aiuterà perché Apollo è il generatore di tutte le arti e il padre delle muse». Il mito, per lui, era più reale della realtà. Come in tutta la sua pittura ha cercato di dimostrare.
M.P.F.