In concerto proponiamo improvvisazioni su melodie note e meno, come “O mio babbino caro”, “Vecchia Zimarra” e “Nessun Dorma”, alternate a nostre composizioni. È quello che si dovrebbe fare, credo, quando si approcciano i grandi musicisti. Spesso si tende a rielaborare il loro sistema armonico, ma molte volte il tutto diventa trito e ritrito, il kitsch è dietro l’angolo. Basterebbe, credo, seguire la lezione di Puccini. Dopo ventisei concerti insieme, sembra che la cosa funzioni…
Danilo Rea, intervista a La Provincia di Sondrio
In effetti le parole di Rea denunciano quello che troppo spesso si è avverato quando dei jazzisti provano a rielaborare pagine tratte da altre musiche, che si tratti di classica, operistica o pop poco cambia, il pericolo di un pastiche senza capo né coda che faccia rimpiangere l’originale è sempre presente.
Non è successo la sera del 28 gennaio a Morbegno grazie anche all’intelligenza e allo spessore tecnico dei due musicisti, formidabili professionisti del proprio strumento, in grado di far convivere e, anzi, fare leva sulla grande differenza timbrica tra pianoforte e basso tuba o serpentone, strumenti questi di Godard ai quali quasi sempre viene dato l’onere di esporre la linea melodica principale, mentre il pianista si ritaglia il doppio ruolo di accompagnatore e solista.
A mio parere il meglio di sé un bravo jazzista lo raggiunge quasi sempre nel proporre propria musica, libera da vincoli e soprattutto lontana da melodie universalmente conosciute, che se non trattate con intelligenza, spesso diventano un arma a doppio taglio. Nonostante ciò l’ora e mezza di concerto è stata divertente, appassionante e ricca di stimoli, sia nelle arie citate da Rea nell’intervista che in altri brani ora di Puccini (“Il bel sogno di Doretta”, tratto da La Rondine, “E lucevan le stelle” da Tosca) ora di Godard (“Trace of Grace”) e naturalmente del pianista stesso, che si è anche concesso una citazione da “Michelle” di Lennon e McCartney alla fine del proprio brano.
Il primo bis dopo un’ora abbondante è una versione in chiaroscuro di “O mio babbino caro”, tratto dall’opera Gianni Schicchi, melodia resa immortale da Maria Callas e soave epilogo della serata.
Finalmente la risposta di pubblico è stata adeguata alla qualità della proposta nonostante il freddo intenso non invitava certo ad uscire di casa. A contorno del concerto organizzato da Ambria Jazz in collaborazione con il Comune di Morbegno, nel chiostro e in una piccola sala del complesso di Sant’Antonio era possibile visitare la mostra di splendide fotografie in un personalissimo bianco e nero di Michele Bordoni, un giovane ma bravissimo fotografo valtellinese spesso di casa al Torrione, il jazz club di Ferrara.
Roberto Dell’Ava