La neve l’ho conosciuta per la prima volta nel 1956 a Frascati, dove frequentavo l’istituto Nazario Sauro. Per conoscere la neve bisogna pestarla, mangiarla, berla, gustarne il sapore e l’odore. Per conoscere la neve bisogna rotolarsi nel suo manto accecante, affondare la faccia nel suo biancore, farsene ricoprire.
Al mio paese, Ciampino, l’avevo vista qualche volta scendere come un velo di farina che si scioglieva o si ghiacciava, non avevo mai visto la neve rivestire il campanile della chiesa e gli alberi e i tetti, non l’avevo mai maneggiata e modellata. Quando quella mattina del 2 febbraio partimmo dalla stazione di Ciampino il cielo era scuro e immobile, i rumori ovattati. Man mano che il treno saliva il paesaggio mutava e s’illuminava, arrivati a Frascati ci sembrò di sognare, un mantello smagliante accuratamente ricopriva ogni cosa e quella che ci apparve era una città nuova, tutta da visitare.
Scuola chiusa, mezzi bloccati, solo pochi studenti che presto si disperdevano per le viuzze. Una giornata di festa, in attesa del treno di ritorno nel pomeriggio, tra una corsa al Tuscolo e una girata tra le meraviglie di Villa Torlonia, qualche sosta al riparo per riprendere fiato, nella cattedrale di San Pietro o nei pressi di qualche forno a legna in Piazza del Gesù, per finire a fare la scivolarella al piazzale della stazione, con l’aiuto di un cartone rimediato fuori da un bar, e la sassaiola a pallate di neve con altri coetanei che intanto si erano aggregati. E il gioco si faceva battaglia scanzonata e volavano scaramucce e risate oltre l’alberata, mentre i lecci si sgrullavano forse per alleggerirsi, forse per allegrezza. E poi quel particolare silenzio, quasi un sipario musicale, carico di sensazioni indicibili.
Maria Lanciotti
(da castellinotizie.it, 22 gennaio 2023)