Inevitabilmente, col passare degli anni, se ne vanno gli ultimi partigiani. Se ne vanno anche le staffette, insostituibili supporto del movimento partigiano. In questi ultimi giorni è scomparsa, all’età di 99 anni, Laura Wronowski, nipote del martire socialista Giacomo Matteotti. A Gad Lerner e Laura Gnocchi, coautori del libro Noi partigiani edito da Feltrinelli, alla pag. 190, dichiara: «Be’, l’antifascismo in casa lo respiravamo come l’aria, anzi pasteggiavamo ad antifascismo. Mia madre ce l’aveva iniettato nel sangue con le endovene. E non poteva essere diversamente, perché Giacomo Matteotti, assassinato nel giugno del ’24, era mio zio. Marito di Velia, la sorella minore di mia madre Nella» (che ha sposato un cittadino italiano di origine polacca). Ed aggiunge: «Mia madre ci ha tirato su nel culto e nella venerazione di Matteotti, tutti con il suo ritratto in casa. Le rimase sempre un grande rimpianto per questo cognato giovane, sportivo, spontaneo, naturale, con una spina dorsale talmente dritta».
A Chiavari, dove la famiglia s’era trasferita, conosce Sergio Kasman, il suo grande amore. Dopo l’8 settembre, Ferruccio Parri lo sceglie come comandante partigiano per la piazza di Milano. A seguito di una spiata viene ucciso dai fascisti. A questo punto Laura rompe gli indugi e, nell’ottobre 1943, a soli 17 anni, inizia a fare la staffetta, portando notizie ai partigiani. Poi decide di andare in montagna, e si porta dietro i genitori, che nasconde in una casetta. Entra a far parte organicamente della Brigata Giustizia e Libertà “Giacomo Matteotti”. Partecipa, rivoltella in pugno, alla liberazione di un gruppo di ebrei che stavano per essere deportati, poi nascosti in un convento di monache di clausura. Finalmente, il 24 aprile 1945 assiste alla Liberazione di Genova. I tedeschi si arrendono alle formazioni partigiane e vengono imprigionati. Dopo la sfilata iniziale dei partigiani presenti in città, partecipa a quella successiva, che vede la presenza dei tanti patrioti della zona, e che riceve i complimenti delle autorità militari alleate nel frattempo giunte in città.
Verso la fine dell’intervista, alla pag. 196 del libro citato, dichiara: «Da partigiana sognavo un’Italia democratica, senza sapere cosa fosse la democrazia. Non l’avevo mai conosciuta, ma l’istinto mi guidava, più forte di ogni altra cosa». Conclude l’intervista con parole amare, che personalmente non condivido ma che rappresentano il suo pensiero maturato verso la fine della sua vita: «Adesso che sono passati tanti anni e vedo questa Italia piatta, gretta, meschina ed ignorante, oggi sì che me lo chiedo se ne sia valsa la pena. Oggi, non allora. Allora ero proprio convinta che quella fosse la strada giusta e, seguendo quella strada, l’Italia sarebbe esplosa. Ma non è esploso un bel niente».
Debbo precisare che questa è l’unica intervista, su ben 400, che riporta una conclusione amara. In tutte le altre prevale l’orgoglio di aver preso parte alla lotta di Liberazione contro il nazifascismo e di aver contribuito alla nascita di un’Italia migliore, libera e democratica, a partire dagli anni del “miracolo economico” e, tutto sommato, fino ad oggi. Non a caso, alla precisa domanda: “Lo rifaresti”, tutti, senza alcuna esitazione, hanno risposto: “Si, certo, lo rifarei”.
Sergio Caivano