“Ciampino chiamano, a dir proprio, quel colle, ch’è a poco spazio di qui verso oriente, alle radici del quale si formò il traforo, per ove avesse adito la via ferrata che mette a Frascati”.
«…Ma Paviolo, che c’è ancora da scoprire sul nome di Ciampino? …Ce l’ha lasciato Giovanni Giustino Ciampini, non penserai di prendere sul serio tutte le bizzarrie formulate finora! Magari “l’unico pino sulla cima di un colle” come mi disse uno dei vecchietti che intervistavo da studente; oppure quelle rielaborate poeticamente da Vincenzo Cerami: forse era qui il bosco dei Ciampi descritto da Stendhal nella Badessa di Castro. “Il tuo vecchietto e Cerami giocano di fantasia, ma Ciampini non basta” continuò lui insistendo. “No, nno-nno… NO! È troppo facile, c’è qualcos’altro… le terre dei Ciampini stavano dall’altra parte del crinale… non mi spiego come quel toponimo sia arrivato fin qui… non basta Ciampini, non basta…».
Si era fatto tardi, lo salutai senza sapere che non l’avrei più rivisto e che a quel bel pomeriggio passato nel salotto della sua casa, avrei pensato più volte negli anni. Ma in quel momento, non feci fatica a scrollarmi di dosso quel “è troppo facile”.
Da casa mia, qui all’Acqua Acetosa, Grottaferrata è ad un passo se raggiungi l’Anagnina svicolando per Colle Olivo e poi per la Cavona. È proprio passando di lì che qualche anno fa mi è tornato alla mente quel pomeriggio a casa di Paviolo di tanti anni prima.
Quella targa, apparentemente così fuori posto, su quella via… inutile ‒ Via della galleria di Ciampino ‒ mi fece scattare una battuta da cabaret di quart’ordine: a Pavio’ – risposi dopo anni all’interlocutore di quel pomeriggio – e come ha fatto a scegne giù… avrà preso er treno!…
Giovanni Paviolo, giornalista, appassionato di Storia, mezzo secolo fa era forse l’unico ciampinese che si ostinava a votare ancora partito liberale, ma lo ricordiamo soprattutto come il primo direttore del mensile locale Anni nuovi. Giovanni non si accontentava di spiegazioni facili, ma a questa mia battuta sgangherata, uscita da un ricordo affettuoso, forse avrebbe prestato attenzione.
Gli ultimi mesi del 2005, i miei amici archeologi Dario e Silvia avevano iniziato a raccogliere i testi scritti chiesti ai relatori intervenuti al convegno su Ciampino che avevamo tenuto il 15 aprile di quell’anno. Claudio Morgia, allora assessore alla cultura, propose di farne una pubblicazione e loro si erano messi al lavoro. Capitava così, spesso, di incontrarci e parlare di come proseguiva l’elaborazione dei testi che dovevamo presentare e a volte ci piaceva ragionare insieme dei contenuti. Capitò di parlare di come mi immaginavo potesse essere la stazioncina di Ciampino di fine Ottocento: “Hai presente ‒ dicevo ‒ quelle che si vedono nei western, assolate, dove ci si arrivava solo con i cavalli e niente intorno?” “Ma sai che da qualche parte, non ricordo dove ‒ mi disse Silvia ‒ ho letto un testo che parlava proprio di questo… Sì, descriveva la stazione di Ciampino così come te la stai immaginando… ma sì devo aver letto qualcosa addirittura su internet… la data del testo era sicuramente di fine Ottocento, anche per come ricordo lo stile”.
Mi richiamò qualche giorno dopo: “L’autore è un certo Guidi, ma non so dirti di più, forse il testo era una guida turistica, si può tentare la fortuna alla Biblioteca Nazionale…”.
Già, proprio un colpo di fortuna.
Passi mesi a setacciare faldoni, passando da un archivio all’altro senza trovare gran che di quello che cerchi e poi inciampi in qualcosa che non ti saresti mai sognato né di cercare né di trovare. Un qualcosa che spazza via anni e anni di elucubrazioni su un qualche perché ed un qualche percome.
È grazie a Silvia Aglietti che ho incontrato nella Biblioteca Nazionale di Roma l’Alessandro Guidi e la sua guida turistica (pubblicata nel 1868) che vi ho presentato la volta scorsa. Leggere quel testo con quel suo stile antico ed affascinante è un tuffo nel suo tempo. È comprendere a fondo come dovevano essere stati travolgenti per quelle generazioni della seconda metà dell’Ottocento ma anche più avanti, a cavallo del nuovo secolo, i risultati di quella rivoluzione industriale che aveva investito l’Europa ed il mondo da poco più di cent’anni. Così scrive Guidi nella prefazione alla sua guida:
Grande argomento invero del poter dell’umano intelletto e di quanto abbiano progredito le scienze fisiche e le meccaniche arti si è egli il veder accorciarsi di tanto, se non al tutto sparir, le distanze che l’un popolo separano dall’altro; propagarsi le notizie con tal rapidità che per poco, dirò, non pareggia quella del pensiero…
Non fatevi confondere dalle sue parole, Alessandro Guidi non è un veggente che parla di web 130 prima della sua comparsa: sta parlando della …novella strada a ruotaie di ferro con la quale… in poco più che otto ore… in su l’entrar dell’anno mille ottocento sessantatré… percorre …quel lungo tratto di via, ch’è dalla Città de’ sette colli alle incantevoli rive del Sebeto e di Mergellina…
Per i suoi lettori è ben felice di fare su carrozze che corrono sulle ‘ruotaie’ di ferro il Viaggio da Roma a Monte Cassino, descrivendo con l’occhio del cronista il territorio che attraversa e le 21 stazioni che separano la sua meta dalla partenza.
Nel suo reportage dopo aver dimostrato tutta la sua erudizione classica nel descrivere i ruderi sopra i quali sorge la Stazione Termini ed il tratto di ferrata che s’inoltra nell’Agro romano, incontra la prima stazione, quella di Ciampino, inaugurata solo nove anni prima della pubblicazione della sua guida. In poche righe reinquadra le elucubrazioni di chi si è dilettato di scrivere di questa Città, arrovellandosi da sempre. Guidi ci spiega senza equivoci che:
Ciampino chiamano, a dir proprio, quel colle, ch’è a poco spazio di qui verso oriente, alle radici del quale si formò il traforo, per ove avesse adito la via ferrata che mette a Frascati.
Insomma, questo nostro toponimo, anche lui migrante… come i suoi abitanti, più di 160 anni fa, scivolò a valle sui binari del treno dal suo luogo d’origine ‒ l’incrocio tra l’Anagnina e la Cavona, dove erano le terre dei Ciampini ‒ per stamparsi sui cartelli della nuovissima stazioncina e per diffondersi di lì… pian piano, su tutto il territorio circostante nell’arco di un centinaio di anni.
Ricordo ancora, i primi tempi che per lavoro avevo cominciato a vivere a Ciampino, quei cittadini, di Acqua Acetosa o di Casabianca, che quando dovevano andare dalle parti di Piazza della Pace dicevano “vado a Ciampino”… lasciandomi quanto mai perplesso.
Il testo di Alessandro Guidi è sicuramente la prima pubblicazione che associa il nome del toponimo “Ciampino” ad una piccola porzione dell’attuale territorio comunale.
Rende merito al “è troppo facile” di Paviolo, al bel lavoro che Adriano Ruggeri ha pubblicato nel 2005, fatto sulle carte d’epoca e sulle sue analisi delle proprietà dei terreni tra la vecchia Stazione di Ciampino e l’attuale Villa Senni, rende inutili gli approfondimenti che avrei voluto fare partendo dalle intuizioni di Paviolo e dal documento datato 1910 che avevo trovato poco prima della pubblicazione di Ruggeri, nel fondo Bonifica dell’Archivio Centrale Nazionale, sul finanziamento concesso al proprietario di una certa “Tenuta di Ciampino” sita… al confine tra Roma e Grottaferrata.
Per la società Pio Latina costruttrice e conduttrice della prima ferrovia dello Stato Pontificio, arrivare fin su a Frascati dalla Campagna romana implicava superare il crinale dove l’Anagnina corre per inoltrarsi nei Castelli Romani. Per farlo senza una pendenza proibitiva per i treni era necessario traforare nel punto d’incrocio dell’Anagnina e la via Cavona. Lì dove c’era la villa dei Ciampini, e le loro terre.
Quella galleria, che chiamarono “di Ciampino”, fu un grosso problema tecnico, sicuramente non del tutto calcolato, che fece slittare di molto i tempi di consegna.
La credibilità della Pio Latina fu messa a dura prova da quell’opera. La società era a capitale anglo-francese e sicuramente Inglesi e francesi erano i dirigenti tecnici. Forse (ma è una mia banale ipotesi non documentata) quel nome “Ciampino” per anni fu per loro un vero incubo e forse invase nel loro immaginario un territorio ben più vasto di quello a cui notai, fattori, proprietari della zona lo confinavano nelle loro carte e nei loro sguardi; forse fu per loro scontato chiamare Ciampino la stazione di smistamento che decisero di aprire nell’innesto sulla linea per frascati nel punto adatto per circumnavigare i castelli, senza inerpicarvisi, e correre verso sud, verso velletri e più giù verso i confini dell’allora egno delle due sicilie. Una stazione che aveva la sola funzione di fare da snodo tra le due linee.
Fu chiamata stazione di Ciampino senza rendersi conto dell’incredibile errore toponomastico che stavano commettendo. Chi d’altra parte poteva obiettare qualcosa su quel nome? Nella zona non vi era alcun nucleo urbano, né case sparse e la Torre di Morena o la Pignola e Pignoletta ma anche le Colonnelle, il Pian di Leucite che per secoli avevano dato i loro toponimi alla zona non ebbero la parola, né loro, né alcun avvocato difensore che ne denunciasse… l’usurpazione!
Come ci documenta con il suo studio Adriano Ruggeri al momento di quella decisione (1859) da circa 200 anni il toponimo “Ciampino” aveva trovato casa nell’incrocio tra la via Latina (l’attuale Anagnina) e la strada, trasversale alle direttrici consolari romane, realizzata sul tracciato del tratturo preromano di transumanza che in quel tratto prende la denominazione di via Cavona; “casa” che mantenne fin oltre la seconda metà del secondo decennio del XX sec.
I decisori di quella scelta non diedero peso, o non si resero conto, della gran confusione che provocarono per quasi 50 anni durante i quali due luoghi, uno a monte ed uno a valle, lontani oltre tre km e completamente distinti tra loro (anche dal punto di vista amministrativo) avevano lo stesso toponimo. I notai che certificarono i contratti di compravendita dei lotti della raggera ciampinese per evitare confusioni s’inventarono per quei terreni il termine “in vocabolo Ciampino nuovo”.
Il toponimo “Ciampino” derivava dalla presenza (nell’area dell’incrocio) della tenuta e della Casa della famiglia dei Ciampini. Domenico Ciampini aveva ottenuto, grazie al gran peso che aveva presso la Corte papale il fratello Giovanni Giustino Ciampini, una prima parte del terreno in enfiteusi perpetua dall’abbazia di Grottaferrata fin dal 24 dicembre del 1665 e successivamente l’intera area con ulteriori atti del 1668.