Dopo il processo di Verona, che si concluse con la condanna a morte dei cinque gerarchi fascisti reperiti (su 19) che avevano votato contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio ‘43, tra i quali Galeazzo Ciano, marito della figlia Edda, che Mussolini non volle graziare per timore della reazione di Hitler, il fascismo repubblichino divenne ancor più feroce, cercando colpevoli ed antifascisti in ogni luogo.
Nel 1944, anche a Sondrio, dove c’erano sempre stati, come dimostrato da Pier Luigi Zenoni nel suo accurato libro Antifascismo di popolo, spie e delatori dilagarono. Molte spie facevano parte, organicamente, delle Brigate Nere o della Guardia Nazionale Repubblicana (GRN). Giravano in borghese, per non farsi notare. Dapprincipio ponevano domande innocue e poi, raggiunta una certa confidenza con l’interlocutore, gli chiedevano informazioni che potevano portare a decisioni gravi. I delatori, invece, per denaro o semplicemente per mettersi in mostra, rilasciavano soffiate compromettenti. “Bisugna sta attent a quel che dis, se riscia de finì in Germania” mormoravano alcuni.
In Prefettura si raccoglievano i nomi degli antifascisti, degli ebrei, dei renitenti alla leva. Le conseguenze erano, secondo i casi, il carcere, il confino, l’avvio ai campi di sterminio o, per i meno compromessi, ai campi di lavoro.
Anch’io ho la mia piccola storia. Conobbi una spia. Meglio: un ufficiale della GNR che, vestito da borghese, faceva anche la spia. Veniva incontro a noi ragazzini, ci parlava di calcio e d’altro. Noi eravamo contenti perché, finalmente, un adulto ci ascoltava. Dopo qualche contatto, mi accorsi che sapeva chi era mio padre e dove lavorava. “Perché vi siete trasferiti qui da Livorno” mi chiese un giorno. “Per i bombardamenti”, gli risposi. Un’altra volta mi domandò perché eravamo sfollati tante volte. “Per ordine di Kesserling”, gli dissi, ed era vero, ma non mi parve convinto.
Per un po’ non lo vidi. Poi, un giorno, me lo trovai davanti alla casa cantoniera di Viale Milano, dove alloggiava un gruppo di camicie nere. Mi venne incontro sorridente, parlò per un po’, poi a bruciapelo mi chiese: “Ma tuo padre ce l’ha la rivoltella?”. Non so cosa mi balenò per la testa in quell’attimo: nella nuova casa di Sondrio, nascosta in cima ad un armadio l’avevo vista, l’avevo anche presa per esaminarla, e poi rimessa a posto. (Gliela aveva data il regime). Ma alla domanda risposi subito: “No, mio padre non ha nessuna rivoltella” (il regime aveva ordinato la consegna di tutte le armi).
A guerra conclusa scoprii che si trattava di un capitano della GNR. La Corte d’Assisi Straordinaria di Sondrio, nel ’46, lo condannò a otto anni e quattro mesi. Un anno o due dopo, lo rividi in Piazza Campello mentre stava parlando ad un gruppo di ragazzi. In dialetto lombardo (era di Cremona), lo sentii ripetere: “Se la se pirla, se la se pirla cume disi mi, fò el boia de prufession, fò el boia!”, poi sparì dalla circolazione.
Un altro graduato della GNR, questo di Sondrio, svolgeva attività spionistica e mi fece la stessa domanda. Venne condannato alla pena di tredici anni e sei mesi. uesti dMolte altre furono le condanne, sempre per spionaggio.
In occasione della presentazione del libro La guerra 1940-1945 vista con gli occhi di un bambino mi venne chiesto perché non avessi scritto i nomi dei responsabili. Risposi che i discendenti di quelle spie erano qui, tra noi, e non mi sembrava giusto che dovessero essere additati per le colpe dei loro ascendenti. Chi, comunque, volesse rintracciarne i nomi, potrebbe esaminare il periodico Cronache giudiziarie del 1945, diretto da Monti e con capo di redazione Francesco Forte, futuro Ministro. Poco tempo dopo, però, in applicazione dell’amnistia concessa dal Governo attraverso il Ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti ed interpretata con eccessiva benevolenza da una magistratura cresciuta all’ombra del fascismo, ritornarono tutti liberi.
Sergio Caivano