A un cuore in pezzi
nessuno s’avvicini
senza l’alto privilegio
di aver sofferto altrettanto
(Emily Dickinson, Sillabe di seta)
Malattia e dolore sono soltanto due dei tanti fili che intessono il vissuto dell’esistenza umana, ma forse quelli che, più di altri, ne danno valore.
Si fa esperienza del dolore - pur a fasi alterne - lungo tutto l’arco della propria vita: dolore fisico, psichico, affettivo.
È questa l’esperienza del limite che, prima o poi, tutti viviamo e con esiti diversi.
Per alcuni il dolore o la malattia diventa una devastante bufera che scuote il cuore, esaspera lo spirito: …porto con me il rimpianto di un canto inconcluso scriveva Arthur Rimbaud, mentre per altri può acquisire un valore epifanico sia per se stessi che rispetto al mistero della vita.
J. W. Goethe -ad esempio- diceva: Ho imparato dalla malattia molto di ciò che la vita non sarebbe stato in grado di insegnami in nessun altro modo.
È nella malattia, infatti, che si capisce di essere impotenti, limitati e dipendenti dagli altri. È la malattia che ci conduce a guardare la realtà con occhi diversi, ci scuote dalla banalità e dalla superficialità. Sale in cattedra ed impartisce una lezione esistenziale. Non comunica nuove conoscenze, ma promuove nuova sensibilità, quella del limite, si cerca l’essenziale.
La sofferenza, inoltre, solleva le domande più vere e mette in crisi la ragione; suscita interrogativi: il mondo, la storia e soprattutto Dio.
Ciascuno dà risposte personali, soggettive, sospese, a volte stravaganti, ma non appaganti, indicate dalla ragione che di fronte al mistero dell’essere si arresta. Rimane sulla soglia delle cose, sta sul limite che è il sacro, il mistero, il nascosto.
Credenti e non credenti da sempre hanno cercato di spiegare il dolore e il senso della malattia.
Le argomentazioni e le strategie pratiche imboccate sono naturalmente diverse, ma c’è un elemento che le accomuna: l’importanza di saper integrare il limite, strutturalmente umano nella propria vita.
Lo scrittore americano Saul Bellow nel suo romanzo Il re della pioggia (1959) non esitava ad affermare che la sofferenza è forse l’unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito.
Che la malattia e il dolore inoltre siano travolgenti lo racconta abilmente Gina Lagorio in uno dei suoi primi romanzi, Approssimato per difetto (1971), un’intensa riflessione sull’esistere e sul morire… Un malato non è più un uomo, nell’accezione comune: ha superato di colpo le tappe che richiedono anni di applicazione: filosofia, storia, religione hanno lunghe sedimentazioni nel cuore di un uomo sano; in quello di un uomo malato la sedimentazione avviene a ritmo vertiginoso: l’ascesi mistica, o la rinuncia stoica, la verità comunque libera da egoismi, tutto questo arriva col male.
Si vive allora la malattia non come tragedia, ma come percorso (più difficile certo) di crescita umana: rinascono i sentimenti, rifioriscono i legami autentici.
Si legge nell’Ecclesiaste: Dio ha posto nel cuore umano anche il senso dell’eterno senza però che l’uomo riesca ad afferrare l’inizio e la fine della creazione divina. (Qo 3, 11).
E Gianfranco Ravasi spiega: La cosciente assunzione del vuoto dell’esistenza e l’individuazione del limite insito nella condizione umana, sono un esercizio da rinnovare ogni giorno, cioè etimologicamente un’ascesi (da askeîn: esercitare, praticare) da compiere.
Un esercizio ascetico che può valere per chi crede e per chi non crede, semplicemente perché è un esercizio pienamente umano.
L’esperienza del limite, dunque, dovrebbe arricchire la vita dell’uomo o potrebbe rappresentare, se adeguatamente compresa e integrata, un’occasione di crescita e di umanizzazione.
Giuseppina Rando