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Ugo Piscopo. La vertigine della superficie 
Nota su Giannino di Lieto dagli Atti del Convegno internazionale di studi del 2007
31 Dicembre 2022
 

L’idea di vertigine (“vortex” > “vertex”) torna frequente, anzi compulsiva, in di Lieto, sia negli intarsi linguistici, sia negli appunti teorici, particolarmente riguardo alle avventure e agli straniamenti del segno sulla superficie. Perché è appunto nel calarsi nella spazialità, nel farsi evento concreto, dichiarandosi puntuativamente come realtà inesorabile sotto forma di figura che si declina e si innerva per sempre in quel tempo e in quel luogo, che il segno si manifesta nell’ineludibilità materica. Cadendo nella rete tenace di quel punto e di quel momento, esso si manifesta, diviene ed è, sottraendosi alle infinite e fantomatiche possibilità che precedono la sua cattura nell’ambito della realtà, che è quella e nessun’altra. Trattenuto in quelle maglie, esso si dibatte, reagisce con tutte le sue energie e in tali guizzi restituisce al mondo il senso della rivolta, del naufragio, dell’esposizione a campi magnetici di silenzio, di solitudine, di assurdità.

Ripiegandosi sulla vertigine della superficie, di Lieto l’ausculta e la definisce come vulnus inguaribile e, insieme, come sfida, anzi come prova di autenticità.

Non come motivo ludico o provocazione di digressioni e di intrattenimento, secondo quanto ribadisce in un suo aureo quaderno, uno degli ultimi, particolarmente prezioso per lo sguardo da lontano crepuscolo gettato sulla propria vicenda, ormai oggettivata e storicizzata, Breviario inutile. Discorso che pretende il Teatro delle «grida». Detti. Di spalla o coreuta rispetto ai fastigi (2003). Qui, discutendo dell’esigenza irrinunciabile, in certo senso fondativa del discorso della comunicazione, del confronto serrato con la bibliografia in quanto catena fenomenologica e del conseguente fisiologico ricorso alla citazione, egli afferma: “La Bibliografia è un Atto dovuto, di gratitudine, la Citazione non come ludus. Concentra nella lunghezza di un «movimento» quell’altalena fra Autore e gli Altri, «leggono», interpretano il fluxus poetico, tropi scalcinati o «frasi» del suo divenire vortex > vertex, ut vinea l’essenziale fondatezza.

(Nomi e luogo)” (p. 20).

Il poeta ci consegna una parola-chiave della sua arte. Ma anche della sua collocazione nel cuore della modernità. Perché il moderno è abbagliato fortemente dall’ossessione della superficie. A cominciare dal grande barocco, da Graciàn e Tesauro, da Góngora, Giambattista Marino e Frugoni, sino agli inebriamenti dello spazialismo e dell’informale di Dubuffet e di Burri e oltre, attraverso un arco di vasta amplitudine, entro il quale sono compresi molti modi di ricezione e molte, diramate e talora divaricate interpretazioni. Lungo quest’arco, particolarmente suggestivi sulla nostra contemporaneità riescono gli spunti e le soste di riflessione di Nietzsche e di Wilde. Il primo, nella progettazione di quella che chiamerà La gaia Scienza (Die fröliche Wissenschaft), considera una tappa esperienziale liberatoria sulla via del raggiungimento dell’obiettivo finale il rispetto del pudore di fronte alle dissimulazioni dei propri intimi segreti da parte della Natura e la necessità di fermarsi sulla soglia delle cose in una contattazione gioiosa della superficie, della tenera epidermide dei fenomeni, che si presentano a noi come involucri, come “scorza”. Il secondo, partendo dai cogenti insegnamenti del teatro shakespeariano e indagando sui dialoghi che si possono svolgere e si svolgono tra l’abito e la maschera da una parte e la verità dall’altra, induce / è indotto nella tentazione di adeguare a unica verità attingibile quella suggerita dalla superficie delle fenomenologie e delle loro personificazioni nel mondo (The Truth of the Masks). Di qua, egli poi si avvia a trarre radicali conseguenze etiche ed estetiche sul versante dei comportamenti dell’individuo d’eccezione che è il Dandy, vocato dalla sensibilità ai riti mistici dell’ascensione nella solitudine e nella noia, quali strumenti catartici.

Su istruzioni nietzscheane e wildiane, si procede poi in Europa nel primo Novecento, tra Liberty e Déco, a inquisire il mistero, gli incantesimi, degli involucri.

Massimo Bontempelli, in Nostra Dea, si diverte a far perdere le tracce e perfino il filo degli aneddoti dell’oggettività e della naturalità: l’unica trama attendibile del vero, se vero ci può essere al mondo, è individuata nell’effimero della situazione presente e nel nesso tra veste indossata e stato d’animo del momento, che è genuinamente qual è, ma che può essere diverso da quello che è stato un attimo prima o ancora da quello che sarà, con altra veste indossata, un attimo dopo. Parallelamente, José Bergamin, un mistico del silenzio e dell’analfabetismo, estraendo delle radicali conclusioni oltre che del proprio pensiero, anche degli audaci scandagli di Jiménez, di Unamuno, di García Lorca e di altri amici poeti e pensatori, affida all’immanità e all’acrobaticità di un suo aforisma questo ossimorico suggerimento al lettore: “Fa’ che il tuo pensiero sia profondamente superficiale: come il tuo cervello o i tuoi polmoni” (La Libellula o Cavallino del diavolo).

Anche per di Lieto la superficie è sfida, seduzione, motivo di straniamento.

Non ci si può, però, fermare alla registrazione del tema: una volta individuata la topica, occorre accertare l’uso che se ne fa negli ambiti linguistico ed espressivo, gli elementi di novità, nel caso che siano rintracciabili, introdotti, l’abilità di spremerne al meglio i succhi vitali, la maniera di farla entrare e agire in scena. Per quanto attiene di Lieto, il nodo da indagare riguarda la sua collocazione in una specie di crocevia, da dove egli guarda, quasi con le medesime inclinazioni, verso la poesia, verso il teatro, verso la pittura, verso il silenzio che anticipa e fiancheggia la musica. Sì, perché il poeta era anche un fine musicofilo.

Da quel luogo di confluenza e di ripartenza, egli considera le divaricazioni non con animo di visitatore occasionale, “du dimanche”, perché sa chiaramente che in un contesto di tecnologie evolute le competenze tecniche sono decisive e perché ha assunto su di sé il faticoso impegno della qualificazione specialistica. Non è un caso che egli ricordi a se stesso negli appunti autobiografici di essersi investito, tra le opzioni che gli offrivano società e cultura, della poesia come professione. È una decisione perentoria e definitiva che egli si dà a stemma di destino, come per effetto di un’illuminazione calata dall’alto, nell’Italia che agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso si avvia, dopo la ricostruzione postbellica, a decollare nell’ambito dei paesi industrialmente avanzati. Entro uno scenario di progressioni di carriera, egli sceglie senza riserve, con un consenso totale, la carriera più singolare e meno redditizia, quella di poeta. Ecco il suo racconto per passaggi veloci, quasi per strappi improvvisi entro i tessuti della narrazione: “Intorno agli anni ’60 ex abrupto mi segna il sentimento immediato delle cose, stavo a terra, in una stazione spenta […].

Intuivo quel senso della mia «inutilità». / In un mondo che va avanti per forme specialistiche, dei Letterati, degli Scienziati, Trovatori e musicanti (le “carriere”).

E allora coup de Théâtre: mi metto a fare il poeta. / Scoprirò che è un mestiere difficile, esposto alle leggi di mercato (mercato dominato da «pescecani», avaro di soddisfazioni). Il «mio» mestiere specialistico, molto specialistico” (Breviario inutile, cit., p. 12).

Poeta, è poeta di Lieto, per autoinvestitura, per specializzazione e per riconoscimento degli addetti ai lavori. Ma è un poeta singolare, alla maniera di Alfonso Gatto e di Leonardo Sinisgalli, tanto per riferirci a un paesaggio a noi familiare, quello meridionale. La loro è una poesia di isole, per servirci di una metafora cara a Gatto, dal terreno fertile e rigoglioso e pertanto pronto a ospitare molte e varie popolazioni floreali e faunistiche. Su queste isole, intellettualità e creatività si sollecitano per contattazioni e sinergie, ma si sfidano anche, inducendo effetti di ricaduta di “sobbalzi”, come dice Ramat di Gatto, di riaggiustamenti e di ridefinizioni, costruendo così avventure dinamiche e situazioni complesse in divenire.

Dentro tali situazioni c’è tanto, forse anche troppo. Abitualmente, i visitatori, cioè i lettori e i critici, si regolano nella maniera a loro più adatta e più calzante istituzionalmente. Vale a dire o inventariano l’insieme, per aneddoti e sovrasommatività, o analizzano il settore secondo le loro abilità e il mandato sociale loro conferito. Se sono critici letterari, fanno rigorosamente i critici letterari.

E attendono poi che del resto, in questo caso del settore artistico, si interessino i critici d’arte. Così, prospettano due discorsi di uno e fanno di uno due. Senza rendersi conto che i due discorsi, sommati insieme, non fanno un discorso unitario su quell’uno solo, seppure in due o in tre, che è, che è stato l’autore. Così, finiscono per tagliare fuori non solo tanta parte significativa di creatività non letteraria, ma anche tutte le interazioni fra letteratura e non letteratura e soprattutto le implicazioni semantiche, anzi le accensioni polisemiche che acquistano il lessico e l’organizzazione sintagmatica grazie alla frequentazione degli altri settori e ai balzi in avanti compiuti dall’immaginario nei pareggiamenti di tentativi e di esperienze analoghi compiuti in settori diversi.

Ad esempio, il profilo dei tre autori citati risulta amputato e schiacciato unicamente sul letterario, quando venga ricostruito esclusivamente sul letterario, senza tener conto degli apporti di arricchimento fantastici e linguistici dovuti all’esercizio dell’interdisciplinarità o della multidisciplinarità da parte degli autori.

Allo stato dei fatti, cioè delle situazioni accertate, Gatto, Sinisgalli, di Lieto sono personaggi dimidiati ovvero pianeti con una faccia nascosta: si sa poco o nulla, infatti, se non per sospetti, delle attività, – oltre che della feconda e lievitante dialogicità intercorsa fra queste attività –, che pure non sono state occasionali sui versanti della visualità e dell’artisticità artistica.

Dovrebbe essere di insegnamento il recente regesto con lo scandaglio critico della produzione pittorica di Luigi Pirandello messo a punto da Carlo Di Lieto, con un’accurata opera di disoccultamento del rimosso, per effetto della quale si accende nuova luce sulle risorse inventive e linguistiche del drammaturgo agrigentino (Luigi Pirandello pittore, Avellino 2005). Ma suggerimenti decisivi, per affrontare questi nodi, vengono dallo sviluppo degli studi iconologici in sede letteraria. Pensiamo a quelli finissimi di Gennaro Savarese, distribuiti nel corso di molti anni e ora finalmente raccolti in volume (Indagini sulle “arti sorelle”. Studi su letteratura delle immagini e ut pictura poesis negli scrittori italiani, a cura di S. Debenedetti e G.P. Maragoni, Manziana, Roma 2006). Pensiamo alle inquisizioni sui luoghi di incontro e sugli snodi tra i linguaggi delle immagini e i linguaggi verbali nei testi letterari che ha cominciato ad affrontare in maniera programmatica da un po’ di tempo a questa parte Marcello Carlino (Deposizioni. Su oggetti di spazio e di tempo tra pittura e poesia, Roma 2001; Scritture in vista. Cinque studi su usi di arti in letteratura, Roma 2005). E pensiamo infine agli affondi di analisi sui testi dei poeti sperimentali, come quelli di Emilio Villa o di Edoardo Sanguineti. In occasione, ad esempio, dei settantacinque anni dell’autore di Laborintus, gli è stato offerto l’omaggio di un numero monografico del “Verri” (n. 29, ottobre 2005), contenente due attrezzati interventi d’impianto iconologico: M. Graffi, Intervista a Paolo Fabbri su Il giuoco dell’oca e L’orologio astronomico di Edoardo Sanguineti; e M.A. Grignani, Sanguineti-Gozzi: un travestimento (anamorfosi) da canovaccio.

Si può, quindi, anzi si deve, in rapporto alla complessità della posizione di Giannino di Lieto, costituita sulla cifra dello scambio tra linguaggio verbale e linguaggi visuali (grafica e pittura), che intrigano fortemente la sua fantasia, tentare, come si fa in questa nota, almeno di mettere in scaletta le operazioni di scambio, facendoci soccorrere dall’idea di vertigine della superficie, che risulta in ultimo idea meno letterariamente costituita sui registri simbolisti e postsimbolisti, che vanno da Mallarmé a Blanchot, che intrisa di umori provenienti dalle ricerche artistiche sperimentali, come quelle del nuclearismo, dell’action painting, del situazionismo, dell’astrattismo, del neodada.

Nella veloce e densa nota prefativa a uno dei suoi ultimi libri (Le cose che sono. Effigie della Poesia. La parola interiore, Minori 2000), in cui significativamente raccoglie in maniera paritetica testi verbali e testi figurativi, l’autore induce con accorta strategia l’attenzione di chi legge a mettersi sulle piste di un lemma, che è usato con inequivoche connotazioni storiche e semantiche. Si tratta di “situazione”, scritto tra virgolette, che è stato già esibito come un fiore all’occhiello dai situazionisti (1957-1961) e che, anche dopo la fine del loro movimento, continua a restare in circolo negli scambi verbali e comunicativi, recando implicazioni e intenzioni ancora vivamente intriganti.

Ecco che cosa scrive di Lieto: “L’universo di cose intuite, «reminiscenze» o profezie, dimensione ctonia, nuvola di luce che si rompe, Verità subito riconosciute, segni-suono come scintille da una forgia, incurvatura dell’animo di fermarle nella loro struggente scia, di scriverli. ‘Entusiasmi’ misterici tradotti in punti spazio-tempo. Species di ‘stato’ linguistico impiegato in «sincronia» della Forma. Immaginare la «situazione»: […] processo di reificazione, il relativo iconico, massa zero Informazione, un vertice” (p. 15).

In “situazione” vien fatto confluire, al fine di ottenere una miscela esplosiva, un materiale ideale eteroclito strappato ai contesti di appartenenza e scagliato lontano ancora magmaticamente surriscaldato a misurarsi e ad esaltare la propria energia nell’incontro-scontro con lacerti vitali di egualmente lontana provenienza e di altra tensione. Sono chiamati a raccolta spunti intuitivi, ripresentificazioni del passato (“reminiscenze”), prospettazioni utopiche e prefigurazioni del futuro (“profezie”), oscure istanze che affondano le radici nella terrestrità nel cui cuore Goethe collocava le “antiche Madri” (“dimensione ctonia”), l’epifania della luce che, nel diluviare senza soluzione di continuità, anzi nello scaturire come da un processo di ininterrotta deflagrazione interna, restituisce l’immagine dell’universo nella sua effettività, cioè primordialità (“l’universo […] nuvola di luce che si rompe”), adeguamenti in tempo reale della fantasia ai processi in atto per derivarne una mimesi linguisticamente opportuna, immune da vischiosità, da attardamenti di maniera, riflessi liquidi e accensioni di frammenti di immagini di fuoco, tutto ciò e tanto altro ancora, per dare, in performance continuamente nuove, senso casa sintesi a un evento, chiamato “situazione”, che raccoglie la forma e va oltre la forma, che terremota gli statuti culturali e, insieme, i rapporti intercorrenti fra soggettività e oggettività, che determina uno “status” di rinverginamento totale del reale e dell’esistere, oltre che sotto gli aspetti linguistici e diegetici, anche sotto quelli relazionali etici politici.

E non è questa una consapevole ripresa di proverbiali intenzioni e atteggiamenti situazionisti? Non è un ripresentificare prospettive definite e sostenute da Gallizio, da Jorn, da Debord? Assoluta è la concordanza col progetto situazionista di rimpasto ridefinizione rivivimento (postsurrealista, ma anche post-Bauhaus, e anche postfuturista: vedi le soste di Gallizio ai bordi della città moderna e della macchina, oltre che della luce artificiale) del mondo, ovvero della percezione del mondo. Identica è l’aspirazione ad andare verso esperienze nuove e intense, totalizzanti e catartizzanti, da attraversare come ambienti psicofisici, per superare i limiti i ghetti le angustie le banalità dell’ordinario e del quotidiano, sui piani sia della soggettività sia dell’oggettività, sia del linguaggio sia dei comportamenti, per incontrarsi con i flussi vitali e ritrovarsi nella condizione dell’effimero e del transitorio. Identica è la strategia a quella descritta da Debord del “détournement”, che vorrebbe far compiere un balzo in avanti rispetto allo spaesamento surrealista, e della “dérive”con cui si vorrebbe istituire un culto del rischio, dell’avventura, della sorpresa (Rapport sur la construction des situations et sur les conditions de l’organisation de la tendance situationniste internationale, Paris 1957).

Ma aperture e incontri da Giannino di Lieto sono cercati e praticati programmaticamente, oltre che col situazionismo, anche e simultaneamente con molti movimenti artistici, sorti in Italia e in Europa dagli anni Cinquanta in qua del secolo scorso, di indirizzo sperimentale e di vocazione alle discese infernali, per usare un’immagine cara a Germano Celant (L’inferno dell’arte italiana. Materiali 1946-1964, Genova 1990). Quale il neodada, per lo scenografico gusto delle demitizzazioni e delle dissacrazioni. Quale il nuclearismo, per l’interrogazione di una nuova sensibilità extravisiva ed extrasensoriale impegnata a soddisfare esigenze di fuga dal quadro. Quale il Nouveau Réalisme, per la nostalgia dei processi primari e le sottolineature delle prassi agonistiche e antagonistiche col reale. Quale l’action painting, per il recupero della gestualità e il culto della matericità. (“Partito punto nello spazio la «parola» si fa materia di sé”, allega l’autore nell’Aggiunta verbale della quarta di copertina del Breviario inutile. E ribadisce il concetto anche altrove). Quali i movimenti concretisti, ad esempio il disintegrismo, per l’andata verso il collettivo e l’anonimo e per la gioia liberatoria di contattare il prodotto disancorato da ogni feticistica attribuzione.

Se si fosse fermato qui e nei dintorni, di Lieto si sarebbe tenuto sul terreno della neoavanguardia e del neosperimentalismo, costituiti su cifre di consapevole citazionismo e di ciniche manipolazioni delle modularità linguistiche. Invece, meridionalmente si fa portatore di partecipazione e di dialogo di relazionalità col mondo e con le sue manifestazioni nel tempo. Allaccia, ad esempio, cinghie di trasmissione coi paesaggi storici e con le sedimentazioni linguistiche e narrative della sua città natale e della Costiera Amalfitana, come ne L’abbonato impassibile. Le facce limitrofe (Minori 1983), o con movimenti, quale il surrealismo, che i neoavanguardisti e i neosperimentali considerano archiviati e rispetto ai quali piantano dei fermi paletti di distinzione. Di Lieto, invece, che pure è indisponibile a fare la vestale di alcuna divinità ed è insofferente fisiologicamente, esistenzialmente, prima che culturalmente, nei confronti di riti e di miti, subisce un irresistibile fascino verso il surrealismo, che adotta come spontaneo referente materno della sua sensibilità, un po’ come accade anche per Alberto Schwarz e per Enrico Baj. Così, finisce per trovarsi ancipite, come si può registrare attraverso i tracciati delle sue dichiarazioni, ma a parte obiecti è per un sì pieno al movimento fondato da Breton, come ammette in un frammento de Le cose che sono, in cui, considerando la sua poesia degli anni Sessanta e Settanta, non può non rilevare l’avvenuta ricezione delle prospettive e delle pratiche surrealiste. In questo brano, egli riconosce: “In principio era scrittura di immagini, scie a pena catturate dalla comune, di scena l’intuizione principe. […] Figure e andamento delle linee si adattano ai moduli surrealisti” (p. 17).

Certamente, egli lascia intendere a sé e agli altri, sottolineando fortemente tale aspetto, che dopo la stagione surrealista sono intervenute nella sua attività tante altre esperienze ed è passata molta acqua sotto i ponti, eppure mai traccia un netto spartiacque tra sé o almeno la parte più significativa della sua produzione e la storia e la fortuna dell’evento auspicato e patrocinato da Breton.

E ciò prova che il cordone ombelicale non è stato mai reciso. Che di Lieto, autore di una poesia che “non ha Padri, non ha Modelli, […] non ha Maestri” (Breviario inutile, p. 5), è anche lui un Enea che si porta sulle spalle, nella fuga da Troia incendiata, il padre Anchise. O, comunque, che egli non scioglie il nodo per identificarsi se sia Enea o Anchise, proprio come lascia sospeso il dilemma che appone significativamente, come questione generale, in fondo agli appunti autobiografici allegati alle prove poetiche e a quelle grafiche e pittoriche presentate ne Le cose che sono.

Enea o Anchise?”, egli si chiede senza dare risposta. “Ognuno di noi Autori si porta dietro il peso dell’Opera maggiore e la Relazione, tipo E = m0c2, genera un mostruoso Bianco” (p. 59).

In margine alla rappresentazione del dilemma, è opportuno soffermarsi per notare come la comunicazione sia gestita con un abile ed efficace ricorso agli scambi linguistici e attraverso la cortocircuitazione di elementi fra loro estranei, se non oppositivi. Nel breve giro di due essenziali periodi, sono messi a confronto icone appartenenti al mito classico (Anchise ed Enea), l’attività letteraria e artistica chiamata in causa nelle persone degli operatori direttamente coinvolti in responsabilità e consapevolezze (“noi Autori”), il nesso forte stabilito tra costoro, che rappresentano per sé l’integrale totalità delle loro esistenze e dei loro rapporti col reale, e “l’Opera maggiore”, che, per quanto significativa e complessa possa essere, è e resta solo una parte di quelle vicende, una formula scientifica (“E = m0c2”), per concludere tutto il discorso in una sintetica e informale tavola di accecante repellente bianco da incubo (“un mostruoso Bianco”). E la tavola bianca diventa la “situazione”, cioè l’incontro avvenuto e in continua tensione ormai nella sua reificazione tra segno/i e superficie reattivamente provocatoria e spaesante. Soprattutto, va tenuto presente il procedimento: icone mitologiche + figure di narratologia letteraria + formula scientifica > esito pittorico. Il racconto si conclude in pittura, facendo andare a braccetto letteratura con definizioni di fisica ricondotte a simboli liofilizzati in lettere e cifre.

È la letteratura proiettata verso rinnovamenti e incentivazioni iconologiche e artistiche. È un mettere la parola in arte.

A tale proposito, Giannino di Lieto ci dà una piena e convincente testimonianza sull’organizzazione e le attrezzature della sua officina e sul suo modo di lavorare dalla letteratura verso l’arte e dintorni, per incentivare la vitalità letteraria e ricondurla all’interno di un flusso di eventi in movimento. Per farla esistere e resistere concretamente nel quadro e nella superficie del reale.

Nel Breviario inutile ci mette a parte dei suoi segreti con questo racconto, che inizia col confronto con la pittura, attraverso una notazione fatta propria di Giulio Carlo Argan sul conto di Mondrian, per definire in ultimo una poetica in nuce.

L’Assunzione di Mondrian: “L’artista non ha il diritto di influenzare emotivamente né sentimentalmente il prossimo”, G.C. Argan, La pittura moderna 1770/1970, mostra una stupita affinità col mio Pensiero semplificato nel Principio della non violenza. Ma ciò che è “facile” in Pittura, rapporti luce – colore – linea, pieni – vuoti, diventa proibitivo nella Poesia Parola. (Diversità dei mezzi espressivi.)

Una “lettura” dei Quadri di Mondrian in teoria è probabile. In Poesia, Parola, “materiale” viscido pregiudizialmente imbrigliato da Regole e Eccezioni, si può agire sul Significato, non riduce la convulsione dei rapporti: ho manipolato questi rapporti come in un gioco di Percezione.

Da Punto di inquieto arancione all’ultimo uscito Le cose che sono, con coerenza, calcolo, quasi ossessivo, ho perseguito questa “linea”. Una folla muta di spettatori ha seguito l’impresa (almeno questo).

Si può parlare quanto si vuole di non violenza o “noumeno” da cui discende una Poesia “fredda”. La non violenza è possibile. Di una Poesia che, ri-producendo l’uomo non lo modifichi, da sommerse altalene la “sua” storia, si pone nel Sentimento della Storia (p. 9).

In breve, la maniera di Giannino di Lieto si definisce non come una “poesis ut pictura”, un “quasi come”, ma quale uscita dal letterario, al modo in cui Fontana o Burri si aprono all’alterità e all’ignoto al di là del quadro e oltre lo stesso, per incrociare, intanto, altri gesti, altri sguardi e rifletterli sul corpo della letteratura, innervandoli e innestandoli nella superficie delle cose linguistiche come tracce che rinviano al senso in fieri e al significato dell’evento. Per dare maggiore spessore e conturbante intriganza alla superficie della parola, in risposta alla sfida dello spazio.

 

Ugo Piscopo


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