Nel mese di dicembre 1944, dopo esser stato ferito ad un polmone nel corso dell’assalto alla diga del Venina, Germano Bodo, comandante della 40ª Brigata Matteotti, decide d’inviare a Castione, in una casa isolata di proprietà dei Parravicini, il giovanissimo Riccardo Rinaldi, per consentirgli di riprendersi. Il giovane, tuttavia, non riesce a stare a lungo inoperoso. Perciò gira per il paese. Individuato dai fascisti, viene a lungo torturato. Vogliono conoscere il nome degli altri partigiani della zona e i loro nascondigli, ma Riccardo non parla. Viene ucciso. Luigi Negri, partigiano della stessa Brigata (nel dopoguerra, proprietario di un ristorante, infine dell’Albergo Europa) lo ricorda con queste parole: “…quando fu ferito da un colpo ai polmoni su alla diga del Venina, e dove il Germano (Bodo) ebbe una grave ferita al piede. Portammo il Riccardo giù in spalla, a turno. Il sangue continuava ad uscire dalla sua ferita e mi scendeva lungo la schiena. Non si era ancora ristabilito, qualche mese dopo, che volle andare a tutti i costi a Castione…”
Sempre a Castione, in località Gaggio, comandante della Brigata Sondrio, si trova Alberto Padrini per incontrarsi con altri partigiani. Scoperto disarmato viene anch’esso torturato, sfigurato ed infine ucciso. Nella Chiesa di S. Rocco, a Castione dove i due sono stati uccisi quasi contemporaneamente, si celebra l’orazione funebre per ricordare i due valorosi partigiani deceduti. Per evitare possibili attacchi fascisti nel corso della cerimonia, i partigiani piazzano due mitragliatrici, una sulla strada verso Sondrio, l’altra su quella rivolta verso la località Balzarro. Una lapide, al cimitero di Castione, ricorda oggi il sacrificio di Riccardo Rinaldi, accanto a quella di Soverna, partigiano della zona caduto in altra circostanza. Nel capoluogo, in centro, un piazzale è intitolato ad Alberto Pedrini, comandante della Brigata Sondrio.
Infine Leopoldo Scalcini “Mina” ed i suoi, nel corso delle operazioni di sganciamento dei partigiani della bassa valle dal massiccio rastrellamento posto in essere da ingenti forze nazifasciste con 4/5.000 uomini verso i primi di dicembre del 1944, non vuole ritirarsi e rimane, con i suoi uomini, in Val Gerola. Come unica misura prudenziale, decide di spostarsi più in alto sulla montagna. Purtroppo, le camicie nere, dietro una indegna segnalazione, riescono ad individuare il luogo e sorprendono nel sonno tutto il gruppo, impossibilitato a difendersi. Ben 36 partigiani sono catturati e poi passati quasi tutti per le armi, a piccoli gruppi e in diversi paesi dell’Alto Lario, per dimostrare al maggior numero di persone la fine che fanno i patrioti. “Mina” tenta di fuggire, ma viene falciato da una raffica di mitra. È il 31 dicembre 1944. Una lapide a Colico ricorda oggi il suo sacrificio.
Sergio Caivano