Ballate è un libro esile, essenziale, dall’aspetto grafico pulito, che raccoglie 29 ballate e quattordici fotografie in bianco e nero di Donato Russo. Le poesie sono state scritte in questo tempo difficile di Covid, di guerra, crisi economica, di linguaggi massificati e omologati e l’autore stesso ne spiega la genesi e la necessità in un trafiletto introduttivo: «Fra le varie letture che mi hanno accompagnato durante la stesura di queste ballate ci sono quelle del prof. Pasquale Romeo e di Zygmunt Bauman con le sue riflessioni sulla società liquida. Le considerazioni sulla società post moderna di Jean Francosis Lyotard, l’ironia di Ennio Flaiano che è un visionario e poi la vita personale che mi scorre accanto, mio padre, mia zia, mio fratello Giuseppe, Angelo, Massimo, Rossella. C’è poi la pandemia, la guerra. Un tentativo di dire “noi” al posto di “io”».
Tutta la prima parte del libro ruota, infatti, intorno all’incertezza che attanaglia la nostra società occidentale post-moderna, ai concetti di consumismo e di globalizzazione, allo smantellamento delle sicurezze di una vita liquida sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa. “Si succedono guerre e violenze con poche proteste/ mentre ce ne stiamo servili e complici nelle nostre sventure/ di mani che fanno gli scongiuri sottobanco e il silenzio della stampa” (da La ballata dei pochi eroi, p. 12).
Si tratta di una tematica cara all’autore, che si riannoda ai suoi precedenti lavori, Parlano parole (2007) e Suonaversi (2016). C’è indignazione, c’è denuncia e c’è anche la consapevolezza di essere sempre più soli con se stessi, con le proprie paure, con la propria interiorità, che si viva in un paese di poche anime (come Baragiano) o in una grande città. I veri eroi sono rimasti pochi, i coraggiosi ancor meno e così coloro che combattono per la giustizia e la verità “Ci vuole coraggio per dire la verità/ o costruire ospedali in zone di guerra” (da La ballata dei pochi eroi, p. 13). Tutto vive in un grande e confuso inganno. Talvolta fatica a (re)sistere un barlume di lucidità, di umanità, di speranza. Lizzadro l’affidata quasi sottovoce ai suoi versi, non per timidezza, ma per contrapporla al frastuono sociale che ci pervade e ci invade “Vorrei radici sotto e prati sopra come un setaccio che filtra vita/ o come l’affetto con cui una donna cura il proprio grembo” (da La ballata del setaccio, p. 25). Permane a tratti lo spirito ironico che caratterizza la sua voce poetica, ma che in questa raccolta si è diradata, lasciando il posto a una velata malinconia. L’autore, come poeta e psicologo, coglie alle radici le disfunzioni del presente e ne avverte i palpiti come fosse accanto a un corpo in agonia “Inghiotti e vomiti parole/ in continua azione e da solo/ e le parole appena salvate/ si dileguano sulla lingua/ giusto un tempo prima/ della rima e del baratro/ che si spalanca di fronte e spesso/ mentre cerchi di salvare te stesso” (da La ballata della definizione, p. 33). Sono poesie prive di tecnicismi, dalle struttura semplice e chiara, e io credo che oggi per scrivere del sociale, occorra essere diretti, espliciti, senza metafore o fronzoli, occorra in qualche modo essere anarchici e andare controcorrente.
La seconda parte della raccolta è affidata invece alla memoria e al corollario degli affetti, quelli presenti e quelli del passato, talvolta perduti. C’è la consapevolezza che poco ci resta di noi e quel poco va salvaguardato, trattenuto e non lasciato andare o abbandonato al flusso caotico del divenire. La voce è piana, semplice, essenziale come una voce antica, che dice con parole misurate, senza costruzioni ed artifici, senza maschere “Oltre al dolore non ci sono più sorrisi/ è piombato un silenzio di ghiaccio/ e ci mancano le tue parole e quei sorrisi/ come solo tu sapevi regalare a tutti” (da La ballata di dicembre, p. 66); “Te ne sei andato in un giorno di maggio/ lasciandomi in compagnia dei ricordi/ una vita così corta, un cuore piccolo” (da La ballata di maggio, p. 68). E nell’ultima poesia a chiusura della raccolta, ecco il riemergere delle emozioni, quasi a ricordarci che esistono ancora “Le note invadono questa stanza/ dolcemente incantano lo spazio/ scendendo in abissi risalgono su/ e mi sento un cantante anch’io/ un concerto di parole e sostanza/ colorato tenue di blu/ un piuttosto ed un altrove/ dove forse già sono stato” (da La ballata ritrovata, p. 70). Sono versi che ci invitano a risvegliare il corpo e i sentimenti per sottrarci all’omologazione sociale. Eppure, nell’Autore, i sentimenti sono sempre veicolati con candore e con pudore, manifestati con misura, senza mai debordare. E anche questo è un atto rivoluzionario, in un tempo in cui la società fa mercificazione di sentimenti e ci chiede a tutti i costi di essere trasparenti in nome della retorica dei buoni sentimenti, senza più permetterci di custodire l’unicamente nostro o il sentimento stesso del pudore.
Maria Pina Ciancio
LA BALLATA DELLA FAME D’ARIA
Si muore per fame d’aria
fra un notiziario e l’altro
in un reparto d’ospedale
nell’indifferenza generale
mentre fuori voci sconnesse
o sui social per fare kermesse
sbraitano disinformazione
convinti di avere piena ragione
scambiando per diritto di opinione
notizie false e situazioni di persone
e in solitudine da sovraffollamento
nei reparti d’ospedale gomito a gomito
con la morte fra un notiziario e l’altro
ancora si muore per fame d’aria
Mariano Lizzadro, Ballate
Associazione Culturale LucaniArt, 2022