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Sergio Caivano. Lo sconfinamento in Svizzera dei partigiani valtellinesi
Il feldmaresciallo Alexander
Il feldmaresciallo Alexander 
05 Dicembre 2022
 

L’autunno-inverno del 1944 si presenta terribile per i partigiani valtellinesi. Devono affrontare una serie di problemi. Innanzitutto il generale Alexander, comandante in capo delle truppe alleate in Italia, a causa del dirottamento di sette divisioni verso il nuovo fronte francese, è costretto ad arrestare l’avanzata verso nord delle armate angloamericane. Perciò il 13 novembre invita i partigiani a ritirarsi nelle proprie case, per poi riprendere la lotta al nazifascismo in primavera.

La cosa appare materialmente impossibile perché i partigiani hanno bruciato tutti i ponti dietro di loro, non possono certo ritornare alle loro case e nemmeno nei loro paesi. Inoltre, la morsa di un freddo quell’anno particolarmente acuto in Valtellina, spesso abbinato alla neve, crea seri problemi di vestiario e calzature. Il 24 novembre vengono sorpresi da un improvviso attacco fascista nella frazione Boirolo di Tresivio ove è dislocato un reparto di partigiani della Brigata Sondrio. Nonostante la strenua difesa dei patrioti, debbono subire la perdita di tre unità, anche se riescono ad infliggere al nemico l’uccisione di sei fascisti. Ma il peggio deve ancora accadere. Il Comando tedesco decide di annientare i partigiani della bassa valle e della Val Chiavenna, per eliminare definitivamente le ripetute azioni di guerriglia poste continuamente in essere dai patrioti che conseguono alcune parziali, significative vittorie. A seguito di questa decisione, a partire dal 30 novembre e dal 1° dicembre le Divisioni Garibaldi debbono subire un attacco massiccio, mai visto prima, assolutamente impensabile, contro il quale sono impreparati.

All’azione partecipano corpi scelti antipartigiani di Bergamo, truppe mongole e polacche, diversi reparti tedeschi, le Brigate Nere di Sondrio, Como e Varese. In tutto, 4/5.000 uomini. Assieme formano un grande cerchio che dalla Valchiavenna si snoda per la Val Masino, la Valmalenco e la Val Gerola. Nel loro procedere incendiano baite, case, rifugi, magazzini, quanto può essere occupato dai partigiani. I partigiani, accerchiati ed attaccati da ogni parte, oppongono una dura resistenza, ma sono costretti a retrocedere, ad aprirsi disperatamente un varco tra le fila nemiche. Tuttavia lasciano piccoli presidi armati nelle zone più alte, difficilmente individuabili e raggiungibili. La situazione appare disperata. I caduti sono tanti. Allora, stanchi, affamati, stravolti, alcuni dispersi, prendono una decisione che non avrebbero mai voluta: quella di avviarsi, a piccoli gruppi, spesso isolati, verso la Svizzera. Si tratta di un vero calvario, ma procedono nella marcia tra la neve, con addosso poveri stracci, aprendosi una via tra le file nemiche, combattendo ancora. Inciampano, imprecano, superano alti passi alpini, alcuni di poco inferiori ai 2.500 metri. L’operazione di sganciamento richiede alcuni giorni. Sempre a piccoli gruppi, giungono finalmente al confine con la Svizzera. Qui debbono consegnare le armi alle guardie elvetiche. Quelle armi che si sono procurati rischiando la vita! Sono sgomenti, ma salvi, a parte i partigiani caduti nell’intento di aprirsi una via di fuga. Con loro, quasi tutti i comandanti. Tuttavia manca il comandante Leopoldo Scalcini, “Mina”, con i suoi uomini, che hanno deciso di continuare la guerriglia accampandosi sulla montagna più in alto.

L’impotenza dimostrata dai partigiani della bassa valle, la fatica sopportata, l’umiliazione subita, durante l’internamento in terra elvetica generano rabbia e profonda angoscia. Tuttavia, quella ritirata necessaria, indispensabile consente in primo luogo la sopravvivenza e, successivamente, la riorganizzazione, l’acquisizione di una nuova consapevolezza, la maturazione di strategie diverse da adottare per il futuro. Poco tempo dopo, meglio vestiti, meglio armati e più determinati nella lotta al nazifascismo, rientrano nelle nostre valli. Pronti a combattere per conquistare la vittoria definitiva e, con essa, la libertà. Per loro e per tutti noi. Nell’aprile 1945 Le Brigate garibaldine si appostano nei pressi del nostro capoluogo il giorno 27, e vi entrano il giorno dopo. I tedeschi sono già fuggiti. I garibaldini, assieme alla Brigata Sondrio, portano il loro attacco ai fascisti, asserragliati nel Castel Masegra, circondandolo da ogni parte. Ha inizio una intensa sparatoria che si protrae per circa quindici minuti. Subito dopo i fascisti si arrendono e si consegnano ai partigiani.

Una folla immensa, ebbra di felicità, riempie le piazze, saluta i partigiani, li abbraccia, li bacia. Sondrio è libera! Lo stesso giorno 28 aprile, verso sera, anche Tirano, dopo la battaglia di Grosio del 18 condotta contro i miliciens di Darnard, viene liberata dai partigiani. Con i tedeschi in fuga verso la Svizzera i patrioti, nel corso dell’intera giornata conducono diversi assalti alle forze fasciste e francesi asserragliati nelle caserme che, verso sera, si arrendono. Infine il 3 maggio Cesare Marelli, il comandante “Tom” del primo battaglione Stelvio, accompagnato dal capitano americano Victor Giannino della missione OSS “Spokane”, costringe l’ultimo presidio tedesco di stanza alla terza cantoniera dello Stelvio ad arrendersi. Tutta la Valtellina è finalmente libera!

 

Sergio Caivano


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