Mario Bertini, classe 1944, pratese. O l’umile mestiere del mediano, elevato tuttavia all’ennesima potenza. Un centrocampista dal fisico robusto, con un’indubbia predisposizione al sacrificio, corsa e abilità nel contrasto, ma anche qualità tecnica e nella costruzione e un gran tiro con cui sovente poteva risolvere situazioni intricate. Prato, Empoli, Fiorentina, Inter, Rimini, le squadre della sua carriera. Nel suo palmarès una Mitropa e una Coppa Italia con la maglia viola nel 1966 – risolta, quest’ultima, da un suo rigore alla fine dei tempi supplementari contro il sorprendente Catanzaro che militava nella serie cadetta – e un campionato italiano con l’Inter nel 1971 – fu lo scudetto del sorpasso ai danni dei cugini rossoneri dopo una trionfale cavalcata di Mazzola, Corso, Facchetti, Burgnich e compagnia calciante.
Bertini fu anche vicecampione del mondo a Messico e nuvole ’70, colonna di quella équipe azzurra che fece sognare con Italia-Germania 4-3 all’Azteca, anche se nulla poté, nella finale persa 4-1, contro il Brasile dei cinque numeri 10 in campo contemporaneamente.
È il periodo d’oro di Mario che con l’Inter l’anno dopo si sarebbe, per l’appunto, laureato campione d’Italia in conseguenza della grande rimonta ai danni del Milan, gli ultimi fuochi di quella che era stato il grande team degli anni Sessanta. Anche se in quest’ultimo il Bertini dai basettoni stile Sgt. Pepper’s non aveva mai giocato evoluendo in quegli anni in Toscana.
Mario da ragazzino giocava per strada – si poteva ancora fare – dove fu notato da un allenatore pratese. Pare che il ragazzo non avesse neppure un paio di scarpe da calcio; rimediò portando a un calzolaio un altro paio di vecchie scarpe in cui fece piantare sulla suola dei chiodi a mo’ di tacchetti. I piedi forse gli sanguinavano con quelle calzature di fortuna, ma il sacrificio sarebbe andato a buon fine... dalla strada alla serie C; da qui alla Fiorentina, con Uccellino Kurt Hamrin, lo svedese mediterraneo, Humberto Maschio, quello del trio de los ángeles con la cara sucia (gli altri due erano Sivori e Angelillo), e il carioca iridato 1962 Amarildo. Quindi l’inopinato trasferimento dai viola, perdendo così il treno del secondo scudetto in riva all’Arno (1969), all’Inter dove tuttavia ebbe modo anch’egli di attaccare il tricolore alla maglia.
Dalla strada a Pelé il passo, come visto, fu relativamente breve... all’ultimo atto del Mondiale 1970 Mario Bertini se la dovette vedere niente di meno che con Edson Arantes do Nascimento, O Rei, ispiratore di quel meraviglioso Brasile. Il compito dell’impossibile marcatura era suddiviso fra lui e Tarcisio Burgnich (e fu la Roccia del Friuli a patire il pazzesco colpo di testa dell’1-0 firmato dal genio verdeoro).
L’umile e possente mediano, appese le scarpette al chiodo, aveva accumulato un bottino di ben 44 reti in 307 gare nella massima divisione e 25 maglie e 2 gol in azzurro. Anche lui ha il suo spazio nella storia del calcio nazionale e non solo. Una cara figurina, e di più, poiché le figurine di quegli anni sapevano restituire il calciatore e, insieme, emanare una grande umanità.
Alberto Figliolia