Sete mi veniva dalle crepe di terra
bombardata.
Cercai un cardo da succhiare
ma odorava di sesso di cinghiale.
Brucai radici come ovino
e mi sentii umiliata.
Poi, seguii il traforo d’una formica
obbediente alle leggi,
tempo più lungo d’un secolo
senza attraversare nemmeno un perché.
Un calcio al baricentro e
abbandonata al nulla
mi cibai del mio stesso midollo.
Stecco di salice snudato piangevo terra.
Amore idea – amore non fattibile –
amore delusorio.
Pappa reale e veleno guaritore ‒ Fui salva.
M’afferrai allo stelo di qualcosa di vivo
e tirai la radice infissa nel magma del mondo.
Sfida sconsiderata. La forza di trazione
sfuggitami di mano mi lanciò – come fionda
un sassetto ‒ a perpendicolo nell’ora calda.
Falena arsa al bacio della fiamma
ricaddi polvere sulla forchetta d’un albero
e mi confusi ‒ rinata ‒ ai germogli
della primavera.
Maria Lanciotti
(da Sangue di passero, Sovera 2001)