Maria Lanciotti
La figlia della rupe
Ibiskos Editrice Risolo, 2009, pp. 156, € 12,00
“Nell’opera incessante che l’autrice svolge
nello smantellare i nostri quadri concettuali
per trovarne altri sempre di più ampi e profondi,
va ricercato il senso etico dei suoi romanzi”
(dalla prefazione)
Fin dalle prime pagine la lettura del romanzo La figlia della rupe lascia frastornati per come l’autrice ha saputo avvolgere: azioni, non azioni, dolori, non dolori, silenzi e non silenzi, insegnamenti e abbuiamento di sensi. Una storia che nel leggerla ci si sente distillare uno sconosciuto sentimento d'un'anima pagana, libera, e che si innesta nella natura e nel tessuto di chi ha intrecciato vite forse svanite, forse ricorrenti in un ciclo “ovale” ed eterno.
Maria Lanciotti ha creato una mitologia. Similmente agli antichissimi Sumeri che hanno forgiato la storia degli dei. La stessa malìa. Leggendola si assimila il terrore delle cose oscure, delle quali si ricerca un perché, senza trovarlo. Cose che modellano una genealogia senza che i discendenti ne sappiano nulla.
Si percepisce il buio della roccia, la fame di pietra, che fosse scolpita per narrare in modo infinito una storia di piccoli umani. Fallibili, pazzi, senza memoria per nascondere ciò che li ha tagliati in modo insanabile nel profondo della coscienza.
Una mitologia, nuova, che diventa antichissima all'improvviso. Si avverte nello scorrere nelle voci sussurrate, millenni di storia e non storia. L’evocazione di un intreccio di vite non per eternare la pietra, ma la parola scritta che può durare anche oltre lo sgomento di chi legge.
Mario Lozzi*
* (1939-2020)