Tove Jansson
Campo di pietra
Trad. dallo svedese di Carmen Giorgetti Cima
Iperborea, 2022, pp. 144, € 14,00
È andato in pensione il giornalista Jonas, ma ha firmato un contratto per redigere la biografia di Y, un magnate che “ha comprato l’intero gruppo di tutte quelle innominabili rivistucole melense, pura e semplice speculazione[…]quel bastardo si è accaparrato ogni singolo bastardo dedito al peggior sensazionalismo e patetismo e li ha messi all’opera”. Li ha incoraggiati a “distruggere la lingua”.
Conosciuta in tutto il mondo per aver dato vita alla serie dei Mumin, libri illustrati per l’infanzia, in Campo di pietra, la scrittrice finlandese di lingua svedese Tove Jansson (1914-2001) affronta il rapporto con le parole, in una storia che ha la durata di una breve vacanza estiva.
Jonas la trascorre su un lago insieme alle figlie Maria e Karin, che per lui hanno preparato una stanza isolata, nel silenzio, in modo che possa scrivere in tranquillità. Ha portato con sé tanti appunti, ma non la macchina da scrivere. Le figlie l’hanno sempre temuta quella macchina che sentivano ticchettare dallo stanzino in cui il padre si chiudeva, perché non doveva assolutamente essere disturbato, ed anche quando la macchina taceva ne avevano paura lo stesso.
Trovare la parola esatta era la sua fissazione, del resto “bisogna essere critici quando si scrive su un giornale”. E quando, parlando, non trovava la parola, se la cavava con eccetera eccetera divenuto proverbiale.
Diviso nella sua professione tra ciò che la gente si aspetta di leggere e la verità legata alla serietà, Jonas ha sempre vissuto in famiglia come un estraneo, un padre che non ha visto crescere le proprie figlie, che non ha giocato con loro, che ha sempre dato soldi perché si allontanassero, ed ora non conosce nemmeno il loro lavoro. Lo hanno sempre saputo che lui disprezzava la moglie.
Invece lei lo capiva e addirittura le faceva pena con quel suo rifiuto di ogni manifestazione di gentilezza. Però quando se n’è andato di casa si è sentita finalmente libera di non dover pesare ogni parola, di dover sempre precisare meglio.
La vacanza lo costringe ad una maggiore condivisione con le figlie, ma la conversazione langue, è formale, e quando per formalità chiede a Maria come va il suo lavoro, si trova davanti ad una reazione inattesa: “Tu fai piuttosto paura. In qualche modo non sei mai esistito”.
Lo disturbano le attenzioni che le figlie continuano ad avere nei suoi confronti. Ma dietro quella corteccia, quella inaccessibilità, ci sono incertezze e goffaggini, la incapacità di accendere un lume senza versare il petrolio, la distrazione nel lasciare una barca a riva senza aggottare e fissare i remi. E il bisogno della bottiglia di whisky, un segreto che le figlie conoscono bene!
La biografia di Y lo perseguita, sa che deve “trovare il tratto umano, quello che la gente vuole”. Diviso tra ammirazione e odio, in realtà odia se stesso, addirittura “sull’orlo della forzatura e della menzogna” immagina di proiettare sulla figura di lui tutte le sue inadempienze di padre e marito.
Nel dirigersi verso il bosco una mattina arriva ad un’area conosciuta come campo di pietra o campo del diavolo, un ammasso enorme di grossi sassi grigi tondeggianti e coperti di muschio, in mezzo ai quali nel tempo era stata scavata una fossa abbastanza profonda: “Y mi blocca come quel campo di pietra. Lui che ha sepolto le infinite possibilità della parola e impietrito tutto ciò che è vero e audace e onesto e delicato, che ha corrotto e impoverito la lingua, ha dato facile accesso a falsi sogni celatamente menzogneri e al vile bisogno di sensazionalismo che, nella sua avidità non ha niente a che fare con il capire e riflettere. […] Neanche tutte le menzogne del mondo riuscirebbero a renderlo vivo”. Anche il campo di pietra del sé deve essere scavato, messo lentamente in discussione.
Allo stesso tempo deve essere indagata la potenza della parola: “Ogni tanto penso che non ci sia niente di più pericoloso delle parole che spargiamo intorno […] le parole possono essere sferrate per ferire, o magari solo per scalfire o bruciare […] Una parola che ferisce può prendere mille forme, e nessuno sa quale delle parole scagliate abbia colpito il centro”.
Il lago, il bosco sotto una pioggerellina che lava, la barca del titolare dell’emporio che Jonas accompagna nella pesca, la verità finalmente gridata da Maria, forse tutto potrà contribuire a spaccare la scorza dietro alla quale Jonas si difende e nasconde. E a farlo sentire più libero e più vero.
L’ossessione di Jonas per la parola rimane a richiamo per tutti, ora che si è fatta sottile, addirittura invisibile, la linea che divide la verità dalla menzogna; quando si è ormai persa la buona abitudine di contare fino a dieci prima di parlare, e non si calcola da tempo la forza devastatrice di ciò che rimane scritto.
Marisa Cecchetti