Una caratteristica dello sguardo infantile è che il mondo in cui il bambino si è trovato a nascere e a crescere - quand’anche fosse un mondo marginale e minoritario - è da lui percepito come assoluto, come il mondo tout court: perché la collocazione di quel mondo nella geografia e nella società appartiene evidentemente a una coscienza più adulta.
La descrizione della vita di una famiglia di coltivatori di frutta in Catalogna - in un bel film intolato Alcarràs di Carla Simòn, è il film che ha vinto l’Orso d’Oro al festival di Berlino - dà a lungo l’impressione di essere condotta in prevalenza dal punto di vista dei bambini di quella famiglia. Se a noi la loro casa in aperta campagna può forse apparire sperduta, povera di occasioni di divertimento, per i bambini è un luogo idilliaco, perché a loro per divertirsi possono bastare la terra, la frutta, gli animali, ma soprattutto la vita all’aria aperta, esposti a tutte le variazioni di luce delle giornate estive; e poi la compagnia reciproca, fonte di un’allegria noncurante dei dissidi che si sviluppano tra i loro genitori.
È poi dei bambini la capacità di mitizzare le figure degli adulti: come quel nonno, sempre vestite di camicia a strisce variopinte dai colletti inamidati; o quel fratello e cugino diciottenne, lavoratore instancabile, spesso disposto al sorriso, salvo una crisi di sconforto di cui dirò; o quel padre, sempre angustiato, scontento e iroso, e non solo per temperamento, ma per buone ragioni che il racconto ci aiuterà piano piano a comprendere.
Infatti, accanto allo sguardo infantile, si insinua gradualmente nel film una coscienza più matura, attaverso la quale scopriamo che quella comunità di coltivatori è in piena crisi: perché la grande distribuzione si appropria a basso prezzo dei frutti del loro lavoro, tanto da rendere la loro fatica poco o per nulla proficua; e perché il proprietario dei campi ha deciso di convertirli dalla coltivazione della frutta all’installazione di pannelli solari.
L’accostamento dei due punti di vista dà al film un tono di rimpianto, di rievocazione di un mondo perduto o almeno in via di disfacimento. C’è un episodio in cui lo sconforto e la disperazione si colgono con più intensità, meglio ancora di quando i coltivatori manifestano contro la grande distribuzione distruggendo un carico di pesche. È quando il malessere, lo spirito di distruzione, raggiungono il personaggio più solare del racconto, quel coltivatore diciottenne di cui ho già detto, obbediente a suo padre, ma più forte e forse perfino più abile di lui.
Egli custodisce un segreto: ha coltivato delle piantine di marjuana, e a volte, accovacciato tra l’erba alta, se la fuma beato. È uno dei rari momenti di pace che si concede, perché il lavoro occupa tutte le sue giornate.
Ma quando si accorge che suo padre scopre il suo segreto, e distrugge le sue piantine, ha una crisi di rigetto: inonda i campi, tanto da intriderli di fango, e passa una notte intera a far baldoria e a ubriacarsi.
È un breve episodio, che racconta di una ribellione a lungo, e forse inconsciamente, maturata dentro di lui, contro un lavoro che ha perso significato, eseguito soltanto per senso della tradizione, per spirito di obbedienza.
Alcarràs, come si sarà compreso, non è un racconto tradizionale: è composto di frammenti di vita, di brevi episodi, eppure i suoi personaggi si stagliano nitidi, ed è resa incisiva, e a volte struggente, l’immagine del mondo rurale che ci trasmette.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale l’11 giugno 2022
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