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Marisa Cecchetti. “Insurrezione” di José Ovejero
20 Maggio 2022
 

José Ovejero

Insurrezione

Traduzione di Bruno Arpaia

Voland, 2022, pp. 352, € 19,00

 

Un romanzo duramente realistico, quello di José Ovejero (Madrid 1958), ambientato nella capitale spagnola ai tempi nostri. Al centro una famiglia, o quel che resta, del gruppo formato dal padre Aitor, la madre Isabel ed i figli Luis ed Ana. A campeggiare le figure di Ana, diciassettenne, e del padre che lavora ad una emittente radio. Ana se n’è andata di casa, Isabel vive in altra parte di Madrid a vendere borse riciclate, Luis si aggira in casa come un fantasma, evitando il dialogo.

Non è la prima volta che Ana se ne va, ci aveva provato anche a quattordici anni, ma era rientrata. Questa volta no. Vive in una casa okkupata insieme ad Alfon, già professore associato presso una Università, che un bel mattino ha smesso di andare a lavorare: è la mente del gruppo che trascorre le sue giornate a scrivere a macchina, evitando ogni tecnologia che lo farebbe rintracciare. Con lui un piccolo gruppo di “rivoluzionari”, tra cui un tossico che raccatta sulle strade pochi spiccioli per sopravvivere: “Mi dai una monetina? Quello che puoi. Mi accontento di poco, e se non puoi mi basta un sorriso”.

Ana è il centro della vita di Aitor, lui ne ha ascoltato il respiro mentre dormiva, seduto accanto al suo letto, fino quasi a tredici anni, lei ha amato la musica fin da bambina.

Ma ora la ribellione di Ana è totale, contro un sistema che ci rende asserviti: “Sei una sbirro del capitale… lavori per una radio al servizio del capitale… abbai ciò che dice il padrone”. Eppure le costa molto questo strappo da casa: nel suo amore per il padre c’è un desiderio di salvarlo dal sistema che lo imprigiona, di renderlo libero, di non farlo essere come quei canarini che si usano in miniera per scoprire il grisou: “Cantiamo e pensiamo/ che basterebbe che osservassero come la fiamma/ diventa a poco a poco allungata e azzurra/ Non avrebbero bisogno di un canarino… non avrebbero bisogno della nostra morte… e dimmi tu a chi accidenti importa la morte/ di un cazzo di canarino”. Sono versi che Ana lascia in casa, quando ritorna di nascosto, in un tentativo disperato, secondo lei, di salvare Aitor.

Il padre, un uomo che non si è mai lamentato nella vita, che non ha combattuto per essere promosso ma si è sempre conquistato i suoi piccoli spazi, è stritolato ormai da un sistema che taglia le teste dei dipendenti, costretto ad accettare compromessi al ribasso o comunque umilianti, che azzerano ogni suo progetto di miglioramento.

Che cosa vuole il gruppo della casa okkupata? In che cosa crede Ana?

Quale è l’obiettivo finale? Creare disordini, che siano contemporanei in varie parti della città, esplosioni per mano di appartenenti a diversi centri sociali.

Attacchiamo, finalmente. Che sia chiaro. Non vogliamo che qualcuno muoia, ma può darsi che muoiano delle persone”. Perché: “tutta quella gentaglia che critica i violenti, che dice che l’ultima cosa che si possa accettare nella società è la violenza, i politici, la stampa, i vostri genitori e i miei, però neanche poi si scompongono sapendo che in Africa si uccide e si violenta e si schiavizza per mantenere il nostro tenore di vita. E bombardiamo civili e torturiamo la gente e bisogna soltanto immaginarselo, che entrino nelle nostre case, ci trascinino fuori, violentino le nostre madri, sorelle, figlie, facciano saltare in aria l’edificio in cui abbiamo vissuto, e tutto per difendere la democrazia o la libertà o qualunque altra merda”.

Un detective si aggira per Madrid su richiesta di Aitor e Isabel, alla ricerca di notizie sulla ragazza, dove si trova, che cosa ha in mente. Nel tentativo di salvarla da gesti inconsulti. Fino a che punto è coinvolta Ana, mentre il gruppo piano piano abbandona Alfon?

Sono dolorosamente soli questi personaggi, Aitor in una casa vuota, abbandonato anche da Luis che nasconde un segreto, solo a leggere i messaggi di accusa, di amore e di addio della figlia: “tu non dirmi niente, non ti ascolto, non ti sento,/ io non parlo più la tua lingua morta,/ non capisco le tue parole da spettro,/ perché me ne sono andata lontano/ e sono in un altro mondo,/ anche se questo non è, lo sai/ un biglietto di suicidio”.

L’ultimo: “Papà, sei ancora in tempo/scappa da quella bara in cui dormicchi/…affronta il sole anche se ti brucia/Però hai ragione: chi sono io/per dare consigli a qualcuno”.

La ritroviamo su una spiaggia: “Si immaginò di vivere lì per anni… Sarebbe stata soltanto quella donna che vive sulla spiaggia, bruciata dal sole, quasi selvatica, ma non aggressiva… E io che ne so, si disse, io che ne so di quanto tempo rimarrò su questa spiaggia”.

 

Marisa Cecchetti


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