“La scrittura non è queste pietre sul portale bianco./ È brusii verso disastri./ È la folle scura, dentro la porta di Marrakesh./ È la cieca che discute di luce con i veggenti”. Su e in questo disequilibrio si fonda dunque la scrittura? Quella di cui ci parla Marco Ercolani nel suo Sentinella ripubblicato, ampliato e rinnovato, dopo oltre una decina di anni dalla casa editrice L’arcolaio?
Procediamo intanto con ordine. Perché si è detto disequilibrio? Osserviamo bene i versi di Marco Ercolani. La scrittura non è queste pietre ma è brusii (e, si badi bene, verso disastri) e poi ancora la folle e la cieca che discute di luce con i veggenti. Pietre contro a) i brusii, b) la folle e c) la cieca, e, come se non bastasse, la cieca a sua volta discute con i veggenti. Una contrapposizione, uno sbilanciamento, si potrebbe dire, uno a tre. Uno a quattro se consideriamo anche i veggenti.
E dunque cosa si evince? Che la scrittura non è solidità. Non è la solidità inamovibile delle pietre di un portale. E neppure la loro immutabilità, e stabilità. Che diventa poi indifferenza considerato che una pietra è insensibile al destino, a qualunque destino, e di conseguenza al disastro.
Non così quando la scrittura è i brusii, quei ronzii insistenti che, deponendosi nella conchiglia dell’orecchio, sospendono e sradicano, e lo fanno perché intercettano voci dall’ontologia sospetta. Perché sono lussazioni, e fratture infinite, che ci legano al disastro. Ed è lì, nel disastro, che la scrittura diventa fioritura, meglio: la fioritura. Ma questa specifica fioritura, la fioritura che salvaguarda il disastro (e necessariamente lo deve fare dal momento che lì soltanto la scrittura è possibile), ecco, questa fioritura di cos’altro ha bisogno oltre ai brusii perché la salvaguardia non sia un fatto sporadico, intermittente? Ha bisogno della folle e della cieca. Quindi, non solo di brusii, di impalpabile materia. Ma di fisicità, di personificarsi. Di essere persona. E chi predilige? La folle e la cieca. La follia e la cecità che si consolidano e realizzano in un corpo. Che diventano chi è in grado di dispensarle ribaltando e/o attorcigliando e/o decostruendo schemi mentali e percettivi
Follia, in particolare, e cecità, pilastri non solo in Sentinella ma in tutta l’opera di Marco Ercolani. Pilastri e radici. Vivi e liquidi. Pilastri e radici che si fanno vasi comunicanti. Che cercano altri vasi comunicanti. Come nel caso della cieca che discute di luce con i veggenti. Quale dei due vasi comunicanti ha della luce un’impronta maggiore? La cieca o i veggenti? Chi è anodo e chi catodo?
Impossibile stabilire proporzioni là dove c’è scambio, là dove c’è un mosaico di fluidità. Qui i pilastri, le radici, si possono solo contemplare facendosi sentinella. Farsi sentinella. Vale a dire: sorvegliare, aspettare qualcuno o qualcosa. Ma soprattutto: porsi a guardia. Come fa la sentinella Marco Ercolani.
Ercolani si pone a guardia della parola, della scrittura. La sua. Ma non solo. Camus Valery Jabes Kafka Cioran… Pronunciare la scrittura dell’altro per filtrare la propria, perché tutto, brusio disastro follia cecità veggenza, diventi il non confine. Il non confine che chiede, pretende, di essere dilatato. Da qui una scrittura che Marco Ercolani vive compiutamente solo nel frammento. Perché una sentinella, la sentinella, è in guardia sempre, è chi non rinuncia a catturare, a fissare, ogni minima parola frase o dettaglio. Nulla può o deve andare perso, e se succede va ritrovato. Uscire dal frammento equivarrebbe a lasciare/lasciarsi sfuggire, a rinunciare. Equivarrebbe ad ammutolirsi, ad un perdersi senza possibilità di ritrovarsi.
Il frammento. La realtà estrema per non ammutolire. Come, del resto, è realtà estrema per non ammutolire il foglio bianco “dopo le nostre scritture”, l’unico che lega scrittura a scrittura, fino a quella dell’ultimo uomo. L’unico che può farsi epifania e aurora. Follia e miraggio. Brusio e cecità. In una sola parola: sentinella. Ovviamente non una qualsiasi. Quella di Marco Ercolani. Lo stesso Marco Ercolani. La sua consapevolezza di “vivere in uno stato di finzione reale” in cui “nessuna interiorità è personale” ma tutto è da “annotare lentamente” senza timore di disseminarsi e moltiplicarsi perché “non c’è tristezza, nel moltiplicarsi, ma ebbrezza del perdersi e ritrovarsi”.
Silvia Comoglio
Marco Ercolani, Sentinella
L’arcolaio, 2022, pp. 129, Euro 13,00