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Maria Paola Forlani. Pasolini 100 anni
06 Marzo 2022
 

Pasolini diceva: «Penso a me come a uno che proviene dalla critica»; ma nonostante il suggerimento arrivi da lui, sarebbe una definizione inaccettabile. Bisogna sempre elencare un gran numero di mestieri, o sottopancia: Pasolini ha fatto tutto, era molteplice; allo stesso tempo era uno, perché ha fatto ogni cosa sempre con impronta personale, riconoscibile e inimitabile. Prendiamo il cinema: a un certo punto ha deciso di fare il regista. Aveva un’idea di cinema già in testa, si è rivelato un cinema tutto suo. Contro la volontà e i consigli degli altri: Fellini lo scoraggiò dopo i primi giornalieri di Accattone, Calvino si arrabbiò addirittura, e dopo i primi film gli scrisse «Vittoria è una delle tue poesie più belle», per poi aggiungere: «quando smetti di fare cinema?».

In realtà, aveva una vitalità intellettuale irrefrenabile che si esprimeva in giornate di lavoro infaticabile: ciò che impressiona, e che deve impressionare oggi, è quanto lavoro riuscisse a consumare ogni giorno, senza mai allentare una tensione profonda, e con una originalità continuamente spinta al massimo. Bisogna ricordarselo che tutto quello che ci è arrivato da lui è il frutto di un’ostinazione quotidiana alla fatica. E a causa della molteplicità, si finiva per sempre fare i conti con lui in qualsiasi direzione. E poi, dopo la sua morte, è stato via via spolpato della complessità e semplificato, forse per approdare a un concetto - “pasoliniano” - che fosse decifrabile.

Invece la molteplicità lo ha reso l’artista e l’essere umano più complesso del Novecento. Basti pensare alle tre definizioni: cattolico, comunista, omosessuale dichiarato (ed era questo il problema: chiunque poteva essere omosessuale, ma nessuno doveva esibirlo). E ognuna di queste definizioni era intollerabile per le altre due: per i cattolici, un comunista omosessuale era inaccettabile; per i comunisti, non solo un cattolico ma anche un omosessuale era inaccettabile; e per gli omosessuali era impossibile accettare le repulsioni di cattolici e comunisti – va ricordato che fu espulso dal partito comunista, da giovane a Udine per immoralità, con l’accusa di essere seguace di intellettuali invertiti come Sartre e Gide; Pasolini invece ha sempre ricambiato con amore (cristiano) mal sopportato, definendo a un certo punto il Partito comunista italiano «un Paese pulito in un paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico».

Ma Pasolini è stato per necessità uno che perdonava sempre. Visto che ha subito 33 processi in cui ha avuto 33 assoluzioni finali. Visto che un benzinaio poteva inventarsi che Pasolini dal distributore era vestito di nero e aveva caricato una pistola con un proiettile d’oro. E questa idea di Pasolini era talmente diffusa che Gregoretti la immortalò nel suo episodio di Ro.Go.Pa.G.: Tognazzi torna a casa, apre la porta, trova il figlio che gli spara contro con una pistola giocattolo urlando «pam pam». E Tognazzi: «Chi sei, il bandito Giuliano?». «No sono Pasolini».

Il motivo di tutto questo era che in teoria Pasolini poteva appartenere a tutti, ma nella pratica non apparteneva a nessuno. Una luce solitaria – come una lucciola appartata. Era un artista e un uomo davvero, e definitivamente solo. Nel 1961 esordisce dietro la macchina da presa con Accattone, il primo di una serie di film ambientati nel mondo proletario romano, vissuto attraverso i toni dell’epica, della violenza e della poesia. All’interno di un’ideologia di sinistra, Pasolini cerca di coniugare marxismo e spiritualità cristiana, nostalgia dei valori del mondo rurale pre-capitalistico e denuncia della violenza dell’industrializzazione e dell’imborghesimento della società. Il cupo pessimismo delle sue opere riflette infatti la durezza del mondo – e il conseguente senso della solitudine che pervade gli esseri umani – attraverso una prosa lucida e precisa che utilizza lo strumento del paradosso nel tentativo di demistificare ideologie considerate degradanti e repressive. La ricerca del contrasto tra musica e immagine, la fissità ieratica di stampo pittorico di molte inquadrature, spesso imperniate su volti presi dalla strada, l’attenzione per le luci naturali e la fotografia (avvalendosi della collaborazione di come Tonino Delli Colli e Giuseppe Ruzzolini), la scelta di esterni remoti e brulli, la scoperta di attori dal fascino ingenuo e spontaneo quali Franco Citti e Ninetto Davoli, sono le cifre stilistiche di un regista che ricerca continuamente – e spesso trova – una complementarietà tra cinema e scrittura. Dopo l’intenso Mamma Roma (1962) con Anna Magnani e l’episodio “La ricotta” nel «blasfemo» Ro.GoPa.G. (1963), processato per vilipendio alla religione cattolica, calca la strada del film religioso realizzando Il Vangelo secondo Matteo (1964) in cui proietta nella figura di Cristo il suo stesso fervore pedagogico e la sua vocazione alla provocazione e allo scandalo. Segue l’amara fiaba Uccellacci e uccellini (1966), parabola umoristica che tocca, tra i vari temi, la crisi del marxismo, il destino del proletariato e il ruolo degli intellettuali, ed è supportata dalla ricchezza mimica di un grande attore spogliato dagli schemi della sua abituale comicità (Totò).

Affascinato dal mito e da varie esperienze teatrali sullo schermo i suggestivi Edipo re (1967), Medea (1969) e Appunti per un’Orestiade africana (1970), con Maria Callas come protagonista, ma il tema della violenza, implicita ed esplicita, è presente anche in molte sue opere cinematografiche, tra cui il crudo e grottesco Porcile (1969) e il metaforico e provocatorio Teorema (1968). Nei primi anni ’70 realizza un vero e proprio «adattamento erotico» velato di forte pessimismo di classici letterari quali Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore della mille e una notte (1974): il conseguente successo, strumentalizzato da un filone di film volgari, lo costringe all’abiura di quella che lui stesso definisce la «Trilogia della vita». Da questa delusione nasce la sua ultima opera il ritratto apocalittico dell’intolleranza del potere Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), sul genocidio degli antichi valori popolari e sulle forme di dominio che anche attraverso la sensualità connotano e degradano i rapporti fra gli uomini

Muore nel 1975 ucciso da uno sbandato (uno dei tanti «ragazzi di vita» di cui aveva narrato le avventure) in circostanze ancora non del tutto chiarite. Teorico e arguto polemista oltre che regista Pasolini rappresenta uno dei casi più originali e riusciti di uso del cinema da parte di un intellettuale di formazione umanistica che trova nella «settima arte» quella che egli stesso definisce la «lingua scritta della realtà».

 

M.P.F.


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