Si sa che il racconto di ogni storia, fosse anche dell’episodio più modesto, presuppone un intero sistema di valori, e insomma una “concezione del mondo”. In certi racconti poi tale “concezione del mondo” è più evidente, più esplicita, e la storia raccontata serve in fondo a chiarirla e ad avvalorarla.
Mi sembra questo il caso del film La fiera delle illusioni, che il regista Guillermo Del Toro ha tratto da un romanzo del 1946 di William Lindsay Gresham. Non si tratta di un’idea del mondo complessa, ma molto semplice, perfino semplicistica: nel mondo, cioè, predominerebbero gli interessi egoistici degli individui, e in particolare l’avidità di denaro. Per la difesa di tale interesse gli individui sono pronti all’inganno, alla brutalità sospinta fino alla violenza più efferata. In questa spietata lotta di tutti contro tutti per il guadagno e la ricchezza, c’è poi chi cerca qualche momento di evasione, per esempio, nell’amore, o nel gioco: come in quei giochi (la storia è ambientata in America negli anni Trenta), che i saltimbanchi, i presunti maghi, gli “spiritisti”, allestiscono nei circhi di paese. Ma è un’evasione che si rivela presto illusoria, perché l’inganno e la brutalità si riaffacciano presto anche in tali mondi marginali, e in forme magari più evidenti, più crudeli che nella realtà abituale degli spettatori.
È in tale contesto che si inserisce la vicenda del protagonista della storia, un avventuriero, forse autore di un omicidio, che cerca rifugio proprio tra le compagnie dei maghi da fiera. Furbo, rapido ad ambientarsi e ad apprendere, dotato di modi da gentiluomo che nascondono un animo rapace e spietato, avvenente tanto da riuscire a sedurre le donne che servono ai suoi scopi, riesce presto a impadronirsi dei trucchi del mestiere, a perfezionare quei numeri da circo un po’ rozzi; poi a esibirsi in locali di lusso, ad accreditarsi come spiritista anche presso uomini ricchi e influenti.
Ma la stessa avidità che gli ha suscitato l’energia per fare carriera finirà per accecarlo e, come per punizione, il destino lo farà precipitare nei ruoli più umilianti, abietti, di quegli spettacoli circensi da cui era riuscito ad emanciparsi.
Si potrà rimproverare al film, come anticipavo, un’idea del mondo, ma anche il disegno del personaggio principale, così semplici da sembrare rudimentali, “tagliati con l’accetta”.
Eppure il racconto presenta spunti originali e profondi. In primo luogo il circo, descritto qui prescindendo da qualsiasi idealizzazione romantica, diventa uno specchio della società. È notevole in questo senso l’invenzione dell’uomo-bestia, un uomo cioè ridotto in cattività, affamato, costretto a nutrirsi davanti al pubblico di animali viventi nel modo più brutale: una brutalità che affascina visibilmente i suoi ingenui spettatori, che rispecchiano in lui, senza accorgersene, un aspetto di sé.
Ed è poi coerente con la concezione del mondo a cui ho accennato, il culto dei morti, che proprio perché non appartengono più a questa vita sono fantasticati come più buoni, più puri; e magari ci si illude di poter comprare con i soldi accumulati, la loro apparizione e il loro perdono.
Il film si avvale di alcune ottime interpretazioni, come quella di Bradley Cooper nel ruolo del protagonista, dal sorriso e dai modi affabili ma dallo sguardo duro e calcolatore; e di Kate Blanchett nel ruolo di una psicanalista, complice e amante dell’avventuriero, che non crede più negli uomini e nella capacità salvifica della psicanalisi, e nel cui animo hanno ormai prevalso l’amarezza e il disincanto.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 5 febbraio 2022
»» QUI la scheda audio)